Due anni e quattro mesi per l’allora capo della mobile di Roma Renato Cortese e due anni, due mesi e 15 giorni per l’ex responsabile dell’ufficio immigrazione della questura capitolina Maurizio Improta. Sono queste alcune delle richieste di condanna avanzate dal pm di Perugia Massimo Casucci nell’ambito del processo Shalabayeva. I due – che oggi ricoprono rispettivamente il ruolo di questore di Palermo e direttore della Polizia ferroviaria – sono accusati di aver preso parte all’espulsione dall’Italia di Alma e Aula Shalabayeva, moglie e figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, avvenuta nel 2013. Chieste le condanne anche per gli altri 5 funzionari di polizia al banco degli imputati.

Durante la sua requisitoria, iniziata stamattina al tribunale di Perugia, il pm ha ricostruito tutti i passaggi chiave della vicenda. A partire da quel 29 maggio 2013, quando le due cittadine kazake furono prelevate dalla polizia dopo un’irruzione nella loro abitazione di Casalpalocco. Le forze dell’ordine in realtà cercavano il marito, ma dopo un velocissimo iter giuridico-amministrativo la donna e la figlia furono caricate su un aereo privato messo a disposizione dalle stesse autorità di Astana con l’accusa di possesso di passaporto falso. A luglio 2013, in seguito alle polemiche per l’operazione, si dimise il capo di gabinetto del ministero dell’Interno Giuseppe Procaccini (“Per senso delle istituzioni”). Secondo le ricostruzioni, aveva infatti incontrato l’ambasciatore kazako Andrin Yelemessov per parlare dell’oppositore Ablyazov. L’allora capo del Viminale Angelino Alfano, invece, fu oggetto di una mozione di sfiducia, poi respinta dal Parlamento. Shalabayeva e la figlia lasciarono il Kazakistan il 24 dicembre dello stesso anno per fare ritorno in Italia.

Il rinvio a giudizio per i poliziotti coinvolti nella vicenda è stato deciso dal gup di Perugia solo due anni fa. Ai tre funzionari dell’ambasciata kazaka accusati del sequestro della donna, invece, è stata riconosciuta l’immunità diplomatica. L’ipotesi della procura è che, all’epoca, gli agenti della Mobile ingannarono sia alcuni colleghi dell’Ufficio immigrazione della Capitale, sia i magistrati che diedero il via libera all’espulsione. Non solo: ci sarebbe stata anche la falsificazione dei documenti per velocizzare la procedura: “Mi dissero che dovevo lasciare la bambina a un ucraino che lavorava per noi. Dissi che preferivo portare mia figlia con me. Ci fecero salire su un aereo – aveva raccontato Shalabayeva – senza documenti né passaporto. Era un aereo privato e molto lussuoso. Dopo sei ore di volo atterrammo ad Astana”.

Uno degli agenti coinvolti nel processo è quello di Cortese, prima ex capo della Mobile di Roma e ora questore di Palermo. Un nome legato da anni alla Sicilia: c’era lui a capo della sezione catturandi l’11 aprile 2006, quando fu catturato il superboss Bernando Provenzano. Con i suoi uomini, ha scovato anche ricercati del calibro di Gaspare Spatuzza, Enzo e Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Benedetto Spera e Salvatore Grigoli. Al termine di otto ore di requisitoria, il pm ha chiesto invece l’assoluzione dal reato principale di sequestro di persona del giudice di pace che si occupò del caso, Stefania Lavore, e del poliziotto Stefano Leoni che era in servizio all’Ufficio immigrazione. Per loro il magistrato ha sollecitato la condanna rispettivamente a un anno e 15 giorni e un anno di reclusione. Chiesti inoltre un anno, due mesi e 15 giorni per Luca Armeni e un anno, dieci mesi e 15 giorni per Francesco Stampacchia, entrambi funzionari della squadra mobile, e un anno e cinque mesi per Vincenzo Tramma, altro agente dell’ufficio immigrazione. Per tutti gli imputati il magistrato ha chiesto la concessione delle attenuanti generiche e l’assoluzione per alcuni dei capi d’imputazione contestati.

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