Il giorno dopo il voto, stando esclusivamente ai numeri, quello che conta è che il Sì al taglio dei parlamentari ha ottenuto il 69,64%, che la partecipazione finale è al voto è stata del 53,8% e che non è stata disomogenea a livello nazionale né al traino del voto amministrativo, come aveva paventato e denunciato il fronte del No nel conflitto di attribuzione sollevato dinanzi alla Consulta (e puntualmente respinto) per affossare l’election day.
Il referendum confermativo non solo ha decretato una nettissima affermazione del Sì ed un evidentissimo ridimensionamento della cosiddetta rimonta del No, auspicata e gonfiata dalla propaganda a testate unificate della stampa nazionale e dai contorsionismi trasversali ed indecorosi della politica terrorizzata dalla riduzione degli scranni che aveva votato quasi all’unanimità, ma ha anche superato brillantemente la soglia del 50% più 1 non richiesta dalla Carta Costituzionale.
I feroci detrattori della riforma per inficiare la vittoria del Sì non possono nemmeno attaccarsi all’appiglio, in verità abbastanza inconsistente, di un esito derivato da un numero esiguo di partecipanti: lo aveva fatto tra gli altri, a ridosso del voto, persino un ex ministro della Giustizia nonché già presidente della Corte Costituzionale come Giovanni Maria Flick, invocando l’assoluta necessità e urgenza di una riforma costituzionale per l’introduzione del quorum al referendum confermativo.
Incredibilmente e con sprezzo della verità l’eufemisticamente variopinto fronte del No, e purtroppo in particolare da sinistra, per giustificare le ragioni artificiose e spesso ipocrite della strenua opposizione ad una riforma minimale di semplice adeguamento del numero degli eletti ad esigenze di allineamento agli altri paesi europei e di elementare funzionalità, è persino arrivato a paragonarla allo stravolgimento tentato da Renzi nel 2016, sottacendo “il dettaglio” che a fronte del ritocco dei due articoli della riforma attuale quella renziana prevedeva la riscrittura di ben 45 articoli e la soppressione del Senato ridotto a “camera delle regioni”.
In realtà, in termini strettamente politici, qualcosa di analogo a quanto accaduto nel 2016 – ma a parti inverse e con esiti diametralmente opposti – si è verificato anche in questa singolare campagna referendaria in cui le carte sono state mischiate molto spesso in malafede.
Se allora a fare del referendum costituzionale un plebiscito sulla sua persona e la sua leadership piegandolo ai suoi interessi contingenti era stato Matteo Renzi, ora ad imporlo al paese e a strumentalizzarlo con ogni mezzo per assestare un colpo mortale al M5S e indebolire irreversibilmente il governo Conte ha provveduto l’eterogenea compagine del No, mossa da motivazioni deboli o inconsistenti sul piano costituzionale ma forti ed univoche pur se apparentemente inconciliabili su quello politico: l’annientamento del M5S.
Non può essere sfuggita la singolare convergenza per il No che ha accomunato personaggi apparentemente agli antipodi della scena pubblica e che hanno fatto della campagna referendaria una resa dei conti definitiva con il M5S e con Luigi Di Maio in particolare.
C’è stata un sorta di idem sentire che ha contraddistinto le Sardine e Saviano, scaduti rispettivamente in banalità desolanti e volgarità gratuite, mossi da un’avversione viscerale e irrefrenabile contro i pentastellati “intrisi di una cultura autoritaria e xenofoba”, così come i vari signori dei giornali e padroni del vapore di ogni parrocchia partitica, che insieme ai numerosi navigatori di lungo corso della politica dai molteplici cambi casacca si sentono tuttora minacciati dall’esistenza del M5S in vista del mantenimento di un potere che non ammettono possa essere scalfito.
E quando in pressoché totale solitudine al M5S e a Di Maio è toccato responsabilmente e coerentemente metterci la faccia e scendere nelle piazze per spiegare le ragioni del Sì condivise apparentemente in Parlamento nell’ultimo passaggio da tutti i partiti, è scattata paradossalmente nei suoi confronti l’accusa di voler personalizzare il referendum. Ma la stragrande maggioranza dei votanti non ha abboccato.
Il risultato finale è che il varo di una riforma di buon senso che raccoglieva istanze e proposte trasversali e condivise a parole da tutto quello che nella Prima repubblica si definiva l’arco costituzionale e su cui nessuna forza politica poteva issare la bandiera è obiettivamente diventato una incontestabile vittoria del M5S, e ha ottenuto il consenso di milioni di cittadini che l’aspettavano da anni e hanno anche avuto modo di rendersi conto del tasso di credibilità, affidabilità e coerenza dei loro partiti di riferimento.
Quanto agli effetti collaterali: Conte che si è espresso chiaramente e ripetutamente per il Sì ne esce rafforzato, il governo stabilizzato e i troppi becchini pronti per le esequie del M5S devono quanto meno attendere gli ormai (speriamo) prossimi Stati generali.