Nell’epoca post-covidica una grande incognita grava anche sulle attività sportive di montagna, e in attesa di capire che cosa ne sarà della prossima stagione sciistica, sono appena ricominciate, a dire il vero assai timidamente, le gare di corsa in montagna. Si sa che le competizioni, professionali e/o amatoriali, hanno una funzione promozionale di prim’ordine anche per la cosiddetta sport-industry, un comparto che solo in Italia viaggiava fino al 2019 sui 10 miliardi di euro di giro d’affari, con 900 aziende e 45mila occupati.
E’ rimasto in sospeso il circuito forse più spettacolare, quello dei Vertical Kilometer, dove dei mostri di velocità e potenza corrono intorno ai duemila metri di dislivello all’ora (considerate che viaggia ai 300 metri l’ora l’escursionista classico, quello per cui sono tracciate le indicazioni dei tempi sulle segnaletiche dei sentieri). Ma le prime gare, appunto, sono ricominciate.
E proprio al ritorno dalla Svizzera per una delle prime competizioni, il campione-star forse più conosciuto, Kilian Jornet, che è anche recordman delle salite in velocità alle cime più alte del mondo, ha postato sul suo cliccatissimo profilo social una riflessione degna di nota: “Essendo un atleta professionista ho avuto l’opportunità di viaggiare per fare gare in tutto il mondo, ho scoperto molti posti bellissimi, incontrando nuovi amici e gareggiando contro/con grandi atleti, ma non ho pensato spesso al suo impatto per il pianeta”.
Un anno fa, agli esordi del movimento ecologista che si è raccolto negli scioperi per il clima del venerdì indetti da Greta Thunberg, avevo notato proprio la singolare insensibilità ambientale che continuavano a mostrare alcuni dei più importanti personaggi degli sport di montagna, Kilian in primis, argomento che non ci stanchiamo mai di sollevare e che suscita veri e propri vespai nell’ambiente.
Fa piacere perciò oggi leggere riflessioni autocritiche così sincere come queste di Kilian: “Negli ultimi decenni il modello sportivo da competizione è stato un gruppo più o meno stabile di persone che viaggiano in luoghi diversi per competere. Questo è molto positivo per la visibilità, ma è anche dannoso per l’ambiente. Forse è il momento di pensare quale sia il modello sportivo che vogliamo per il futuro”.
Da persona che non è abituata solo a far funzionare i muscoli, ma ama esercitare il cervello (è uno che si porta l’e-reader dietro quando si allena, e nelle pause legge magari in originale i grandi romanzi classici francesi), Kilian suggerisce: “Probabilmente dobbiamo fare meno viaggi internazionali e promuovere di più le competizioni locali. Riservare il viaggio internazionale per l’evento molto speciale, in modo che sia l’eccezione e non la norma. E lo dico sapendo che negli ultimi dieci anni ho preso aerei per andare da nord a sud, da ovest a est quasi mensilmente, qualcosa di cui mi vergogno dal mio punto di vista di oggi”.
Naturalmente, s’è levato subito qualche sky-runner, come il polacco Adam Buczyński, per replicare: “Il volo per le gare è probabilmente lo 0,001% di tutti i voli e probabilmente lo 0,000001% dell’impatto ambientale. È come cercare di spegnere un fuoco con gocce d’acqua…”.
Ma si sa che l’ambiente della montagna e degli sport di competizione si fonda su un tale egocentrismo che non ammette critiche e mal tollera le regole. Persino protagonisti con un curriculum di prim’ordine anche nell’ambientalismo alpino, come Alessandro Gogna, reagiscono con fastidio e insofferenza all’eventuale chiamata a correi degli alpinisti nell’inquinamento mondiale.
La questione non è tanto negli zero virgola del contributo diretto al riscaldamento globale di chi va in giro per il mondo a correre e a scalare, ma nell’esempio che soprattutto i migliori e i campioni sono tenuti moralmente a dare. Perciò, merita un grande applauso la svolta green di Kilian.