Abbiamo appurato che i ragazzi non hanno la febbre, abbiamo fatto in modo che si mettessero la mascherina, sì, anche quella con gli elastici che fanno il giro della testa, abbiamo sanificato i banchi, igienizzato le biro e ci siamo accertati che i lunghi mesi in cameretta non li abbiano traumatizzati, ma al massimo resi più ciechi.

A questo punto, nel breve tempo concessoci prima di finire di nuovo tutti in quarantena (massima solidarietà a chi ci è già), dopo aver spiegato un argomento nuovo, o ripassato due capitoli vecchi o dopo aver ripreso qualche concetto mal digerito con la didattica a distanza, toccherà pur affrontare la realtà e farle. Le verifiche.

E qui, signore e signori, e fu sera e fu mattino. Ho già ascoltato di tutto e il contrario di tutto. Perché sì il digitale è bello, le prove computer-based vuoi mettere, l’invio dei materiali digitali è una meraviglia, le prove strutturate da svolgere direttamente sulla piattaforma sono il sogno segreto di tutti. Ma le verifiche old fashioned way, quelle cartacee fatte in presenza, dal vivo, in diretta, quelle reliquie del passato a cui siamo ostinatamente affezionanti, quanto meno per accertarci che gli studenti siano ancora in grado di utilizzare il pollice opponibile per scopi diversi dalla digitazione su smartphone, quelle verifiche lì hanno il drammatico difetto di essere potenziali veicoli di contagio.

No, non si può dar fuoco al pacco non appena lo consegnano, l’avevo proposto subito ma mi hanno detto di no. Peccato, io a certi questionari, ancor prima di raccoglierli, soltanto sbirciando qualcosina durante la passeggiata tra i banchi (quella che una volta si poteva fare, non il miglio verde che si fa oggi), dicevo, a certi questionari darei fuoco volentieri senza neanche mettermi a contare gli errori.

Tuttavia ci sono state fornite alcune brillanti soluzioni. Intanto farsi aiutare dal più galantuomo dei colleghi: il tempo. Pare che raccogliere le verifiche con i guanti di lattice, collocarle in una busta di plastica come fanno quelli di Csi e lasciarle nel cassetto per una settimana convinca l’eventuale virus ad andarsene. Non ho capito se in quella settimana il virus le corregge pure o se, più probabile, annichilito dagli errori ortografici si dissolve. Nel caso sarebbe opportuno suggerire ai ricercatori di tentare anche questa via mentre si ingegnano per trovare il vaccino, se serve posso dar loro tutti i miei pacchi da correggere sacrificandomi con abnegazione in nome della ricerca scientifica.

Altri colleghi mi hanno raccontato di aver scelto soluzioni differenti: c’è chi spruzza i fogli delle verifiche di alcool (l’ho sempre detto che un grappino sui temi non può che far bene), c’è chi le lascia stese fuori dalla finestra nelle notti di plenilunio, chi le mette nel microonde per qualche minuto recitando preci. C’è chi le immerge nel vin brulè, c’è chi se le fa consegnare in raccoglitori di plastica trasparente, le sanifica e poi le corregge con il pennarello indelebile.

C’è chi fa alzare i ragazzi uno per uno, chiede loro di lasciare le verifiche su di un banco vuoto, poi ne prende una alla volta con le pinzette per le sopracciglia e le corregge con i guanti del reparto ortofrutta. Ci sono quelli che le cospargono di polvere di fata e peli di unicorno, quelli che le mettono in freezer per una notte insieme alle crocchette e quelli che trafiggono il plico con un dente di Basilisco. C’è chi interroga e basta, ma dal posto.

Mi pare di ricordare che qualche estate fa si facesse un gran parlare dell’invio nelle scuole di crocifissi per tutte le aule, tanto da incendiare di polemiche le pagine dei quotidiani. Ecco, nel caso giacciano in qualche scatolone mai spedito, direi che questo è l’anno giusto per inviarli, giusto per non lasciare niente di intentato. Il manuale dell’esorcista basta inviarlo in pdf insieme alle prossime circolari.

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