Cagnolini clonati, banche dati di ogni genoma del pianeta, il tentativo di “resuscitare” un mammut estinto migliaia di anni fa. Non è la trama del nuovo Jurassic Park bensì una vicenda che più vera non potrebbe. Quando la scienza si confonde alla fantascienza il titolo è Genesis 2.0, un documentario così appassionante e avventuroso che sembra scritto da Spielberg. Invece porta la firma del documentarista svizzero Christian Frei, un visionario nell’ambito del “cinema del reale” già candidato all’Oscar per War Photographer (2011), che a questo giro ha ingaggiato il giovane collega siberiano Maxim Arbugaev per delle riprese sulle isole della Nuova Siberia, una wasteland remota che sembra non appartenere al tempo.
Qui riposano ancora le zanne di mammut lanosi preistorici, che i cacciatori locali regolarmente raccolgono attraverso spedizioni oltremodo rischiose per venderle al mercato nero, trattandosi di “prodotti” assai rari e preziosi. Durante una di queste spedizioni accade l’incredibile: viene rinvenuta la carcassa di un mammut con ancora strati di carne attaccata da cui fuoriescono residui di sangue semiaddensato. Da quel momento il racconto assume tratti quasi fiabeschi pure aderendo perfettamente al percorso scientifico a cui il ritrovamento è sottoposto. In tal senso la doppia regia diventa funzionale alla costruzione di due narrazioni parallele ma dialoganti: da una parte Arbugaev mette in scena il modus operandi dei cacciatori siberiani ammantando il suo racconto di arcaico mistero, attraverso panorami surreali e uomini devoti all’endurance, dall’altra Frei viaggia “insieme” agli scienziati russi che trasportano il “sacro Graal” (carne e sangue del mammut) verso un destino avveniristico senza precedenti, ovvero quello di ridare la vita all’animale preistorico attraverso la clonazione. Per farlo si recano in Sud Corea dove vive e lavora il discusso vate della clonazione di cellule staminali, il dr Woo Suk Hwang, a capo della Sooam Biotech che ad oggi ha clonato 900 cani a scopi commerciali.
La bioingegneria invocata nel film – anche attraverso il mitico genetista americano George Church, vero visionario della biologia sintetica – è pronta a dichiarare che è sufficiente il ritrovamento di una cellula vivente nei residui del mammut per poterlo clonare, “resuscitando” così la preistoria nella Storia. Ma il viaggio non finisce a Seoul: russi e coreani a un certo punto volano in Cina dove esiste la più grande banca dati di Dna del pianeta. Luogo anch’esso dal sapore fantascientifico, ha l’obiettivo di mappare il vivente terrestre per poi poterne controllare i destini, riproducendolo a suo piacimento. Mentre così i cacciatori siberiani “sudano il gelo” di una ricerca nel passato remoto, i bioingegneri progettano futuri (fanta)scientici, speculando su esistenze possibili, mettendo in discussione i fondamenti della bioetica con una disinvoltura disarmante. E qui Genesis 2.0 compie un miracolo squisitamente cinematografico perché porta lo spettatore a viaggiare tra il passato e il futuro quasi senza sfiorare il presente, ridotto a uno scambio epistolare tra Frei e Arbugaev denso di curiosità, desideri, paure. Siamo in un Cuore di Tenebra che guarda a Blade Runner passando per WestWorld: la corsa per l’Oro bianco preistorico che può tramutarsi nel laboratorio del dottor Frankenstein, laddove il ritorno al Futuro mette in gioco leggende, miti e tabù e ci porta – inevitabilmente – a confrontarci con chi siamo e da dove veniamo, con la nostra Genesis. “Tra utopia e distopia, curiosità e scetticismo” – dice Christian Frei – “veniamo scaraventati in un mondo ignoto con tutte le sue domande aperte. E su tali conflitti è costruito il nostro film”. Genesis 2.0, già premiato dal pubblico al Sundance, è nelle sale da giovedì 24 settembre.