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La Cina difende le politiche del lavoro (da schiavi) per i musulmani dello Xinjiang. E rivendica il successo del benessere

Il governo cinese esalta i risultati nella regione degli uiguri, dove oltre un milione di persone sono state emancipate dal lavoro agricolo e l'occupazione è aumentata. Ma nessun osservatore internazionale può verificarlo. Ecco la strada della "sinizzazione" voluta da Xi Jinping

Si intitola “Impiego e diritti del lavoro in Xinjiang” il libro bianco pubblicato la scorsa settimana dal governo cinese. Difende le politiche di Pechino nella provincia più occidentale della Cina proprio mentre si levano critiche diffuse a livello internazionale, che nel contesto della guerra ibrida in corso sono poi amplificate dalla propaganda statunitense. Le critiche più recenti riguardavano proprio la qualità del lavoro offerto alla popolazione musulmana che passa per quelli che la Cina chiama “centri vocazionali” e gruppi per i diritti umani definiscono invece senza mezzi termini “campi di concentramento”, da cui chi esce viene poi destinato a lavoro sottopagato, se non addirittura schiavistico. E si tratta di una regione dove, ha dimostrato Associated Press, è in corso una sorta di “genocidio demografico”, con aborti, severi controlli delle nascite e sterilizzazione forzata delle donne musulmane.

Sul tema lavoro, nel suo libro bianco, la Cina cerca di affermare il contrario: le politiche in Xinjiang sono fondate sul lavoro proprio perché è un diritto, dà dignità alla persona e di conseguenza risolve anche i problemi della società. Nella fattispecie, la presa del fondamentalismo islamico sui poveri e gli ignoranti.

Il paper dice per esempio che dal 2014 al 2019 – cioè dall’inizio delle politiche emergenziali in Xinjiang – gli occupati sono cresciuti di due milioni (“da 11,35 milioni a 13,3 milioni, con un incremento del 17,2 per cento”) e che questo aumento si è concentrata nelle aree più povere dello Xinjiang meridionale, a maggioranza uigura, dove si sono emancipate dal lavoro agricolo ben 1,68 milioni di persone. La crescita occupazionale è avvenuta soprattutto nel settore terziario (+10,9 per cento), cioè i servizi ad alto valore aggiunto. Sono inoltre impiegati in città 2 milioni di lavoratori in più (“da 5,35 milioni nel 2014 a 7,34 milioni nel 2019”) e in città vive ormai il 55 per cento della popolazione, percentuale in linea con la media cinese.

C’è in questo dispiegamento di cifre, che intendono rappresentare uno Xinjiang sulla strada della modernizzazione, un’idea che viene da lontano: il lavoro e il benessere che ne discende sono la soluzione a tutti i problemi. Del resto, la ricetta sembrerebbe aver funzionato nel resto della Cina, dove il consenso per il Partito comunista si fonda soprattutto sul suo successo nell’opera immane di emancipare dalla povertà nera almeno 700 milioni di cinesi negli ultimi 40 anni. Tant’è che il “benessere moderato” da far conseguire a tutta la popolazione è diventato un vero e proprio slogan ufficiale della presidenza Xi Jinping.

Tutti i numeri che indicano i successi in Xinjiang non sono però verificabili, anche perché Pechino non ha finora dato il permesso a osservatori indipendenti di circolare per la regione. La recente richiesta dell’Unione Europea affinché la Cina lasci libero accesso allo Xinjiang è caduta nel vuoto, a oggi sono state concesse alla stampa internazionale visite molto selettive ai cosiddetti “centri vocazionali”, in cui giovani delle minoranze che lì sono rinchiusi recitano inevitabilmente un mantra: ero disoccupato, stavo prendendo una brutta strada, adesso ho finalmente imparato un lavoro che mi aprirà le porte del mondo.

Fa inoltre parte di questo insegnamento vocazionale l’adozione del cinese mandarino come “lingua nazionale” che rischia di trasformare l’uiguro in un dialetto residuale, a forte rischio estinzione. Politiche simili sono state varate di recente anche in Mongolia Interna (regione della Cina, ndr), dove hanno suscitato le proteste della popolazione locale.

Queste politiche sono state definite “assimilazionistiche” da James Millward, studioso statunitense esperto della regione, che contrappone l’antica tradizione imperiale cinese – la coesistenza di diverse etnie e culture sotto l’ombrello rappresentato dall’imperatore e dalla burocrazia celeste – alla graduale sinizzazione a cui si è assistito dall’avvento di Xi Jinping nel 2013. Qualcuno fa risalire questa svolta al prevalere di circoli nazionalisti han – l’etnia maggioritaria cinese – ai piani alti del potere cinese, specialmente dopo la rivolta di Urumqi del 2009 e il ciclo di attentati apparentemente di matrice islamista del biennio 2013-14; altri invece le identificano con la sempre maggiore importanza e capacità di pressione esercitate da think-tank “sviluppisti”, fautori cioè di una riduzione della diversità culturale cinese, in direzione invece dell’efficienza di mercato: un giovane sinizzato – anche se appartenente a una minoranza – è più produttivo e ha più opportunità di lavoro.

Al di là dell’assimilazione – definita da alcuni “genocidio culturale” – e restando alle questioni del lavoro, permangono comunque tutti i dubbi sulla reale qualità di queste nuove occupazioni e sui redditi che ne discendono. Circa un anno fa, su Internazionale un uiguro raccontava la sua perplessità nell’apprendere che la suocera 55enne, che non aveva mai rivelato tendenze fondamentaliste ed era comunque detenuta ormai da mesi in uno dei centri, aveva imparato a fare il pane: la montagna (di dolore) che partorisce il topolino.

Resta, però, una speranza. E cioè che dietro il chiaro intento giustificativo e autocelebrativo del libro bianco sullo Xinjiang, il governo cinese intenda dire anche un’altra cosa: le politiche in Xinjiang hanno funzionato, quindi si può aprire una fase nuova, si passa dal bastone alla carota. Nessuno stato di polizia può durare in eterno.