Due spunti di riflessione dopo la débâcle del “No” (premettendo che, per quel che mi riguarda, tagliare era questione sacrosanta, per tutte le ragioni note a chiunque abbia voluto informarsi senza pregiudizi ideologici, senza dar adito a baggianate sul fascismo incombente, sul vulnus democratico, eccetera eccetera).

1. Il primo: l’unico giornale a fare campagna per il “Sì” è stato il Fatto Quotidiano, che però è solo uno dei tredici maggiori quotidiani italiani (esclusi quelli sportivi), e rappresenta (dati del 2017) circa il 4% dei lettori (senza tener conto degli utenti online). Ora, visto che la famosa “libera informazione pluralista” dovrebbe appunto tener conto dei vari orientamenti e, in qualche modo, rispecchiare grossomodo le inclinazioni del Paese reale, qualcuno dovrebbe chiedersi: quali giornali hanno rappresentato il rimanente 66% che, in proporzione, ha votato “Sì”? Risposta: nessuno.

E pressoché lo stesso potrebbe dirsi degli altri mezzi di comunicazione, in stragrande maggioranza schierati contro il taglio, col risultato che circa il 94% di chi ha votato “Sì” non è stato rappresentato da nessun organo di informazione (per limitarsi soltanto al cartaceo). Il che, oltre a essere indecente, dà la misura di una situazione che si ripete, coi relativi aggiustamenti, in tutto l’Occidente: la classe soi-disant dirigente e intellettuale che monopolizza il discorso pubblico crede che alla foga, impacciata e in assoluta malafede, con cui presidia la stampa, corrisponda un effettivo potere d’influenza, mentre è innegabile che nella costruzione dell’opinione pubblica contemporanea giornali e televisioni contano sempre meno.

I Puri e Folli, i Giannini bifronte, i direttorissimi pompieri Mauro Damilano Molinari, eppoi mielisti vari… incluso il capostipite, sempre pronti a fustigare la barbarie, a esercitare il loro disappunto da sentenziosi Catoni corrucciati, apostoli indefessi del Sommo Bene pubblico, del galateo morale, delle autentiche virtù democratiche, sono vacui ectoplasmi catodici, presenzialisti inconsistenti, a mio parere di una mediocrità culturale che consentirebbe loro a fatica di sostenere un esame di cultura generale.

Eppure pontificano indignati, senz’accorgersi che il Novecento è finito da un po’ e delle loro omelie in minore non frega più niente a (quasi) nessuno. Soprattutto perché, per quanto disprezzano chi è estraneo ai loro salotti, se arringano in difesa della democrazia sono credibili come un pokerista quando bluffa.

2. Poi: i parlamenti delle democrazie occidentali decidono poco o nulla almeno dalla svolta neoliberista del triennio 1978-‘80 (impeccabili, a questo riguardo, le note analisi di David Harvey, corroborabili a piacere con Boltanski-Chiapello o Piketty). Il loro ruolo è inscenare burocraticamente il “gioco dei partiti” intanto che, sotto lo scudo retorico del mantra per cui “non ci sono alternative”, vengono invariabilmente ratificate decisioni prese altrove, dove consorterie e camarille controllate da nessuno muovono le leve del potere economico in modo programmaticamente ostile agli interessi dei più. Da questo punto di vista, discutendo del numero dei seggi ci si sta accapigliando intorno a qualcosa che, di fatto, non dovrebbe nemmeno essere oggetto di disputa politica perché, semplicemente, non ha più alcun impatto sul modo in cui il “reale” si produce.

I beoti del parlamentarismo di matrice liberale come unica forma politica possibile dovrebbero poi far due conticini colla storia. Il sistema parlamentare moderno, antecedente diretto di quello attuale, nasce in Inghilterra nel XVII secolo e s’afferma nel continente alla fine del secolo successivo. È dunque un’istituzione abbastanza recente. Non necessaria e eterna, ma relativa a un certo contesto. Oltretutto, il meccanismo della rappresentanza è essenzialmente una tecnica. Perché il “popolo” esercitasse il potere legislativo, essendo materialmente impossibile consultare tutti i cittadini qualificati ogniqualvolta si trattasse di prendere una decisione, s’è proceduto per delega: l’elezione del rappresentante in parlamento.

Tutto questo, prima dell’avvento e della diffusione di Internet, era una necessità procedurale inevitabile. Ora, qualcuno, nell’epoca attuale, può davvero pensare che in un mondo dove solo il 4% degli utenti passa meno di un’ora al giorno (il 50% dalle 3 alle 7 ore) allo smartphone, e dove ogni anche minima attività – così come gli accessi al mercato e ai servizi – viene gestita per via telematica – dalle interazioni sociali all’acquisto del biglietto del tram; qualcuno può davvero pensare che la tecnica della rappresentanza parlamentare non sia già divenuta de facto obsoleta?

È evidentemente solo questione di tempo, ma il parlamento verrà giocoforza sostituito dal “popolo” degli utenti digitalmente interconnessi che, di volta in volta, potranno esprimersi in modo diretto su questa o quest’altra proposta di legge. La cosiddetta “democrazia diretta” non è un’invenzione dei 5 Stelle ma una necessità storica determinata dalla tecnologia oggi vigente. Alla luce di queste considerazioni è facile intuire che la discussione di questi mesi sul taglio è un dibattito giurassico, perché anziché pensare una nuova forma politica futura, cioè tentare di intersecare e governare i processi che determineranno il mondo di domani, si ostina a dibattere intorno a un simulacro del passato, fingendo di non sapere che la vera posta in gioco è altrove.

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