di Antonio Marino

Le consultazioni che non ti aspetti. I giornaloni del No che paventavano rischi (inesistenti) per la democrazia rappresentativa e derive autoritarie in conseguenza della riduzione del numero dei parlamentari escono sconfitti. La quasi totalità della stampa e dell’informazione italiana, dunque, rappresenta una minoranza del Paese, esattamente come la stampa di regime, che nel 2016 ci aveva spacciato la riforma Renzi-Boschi come la panacea di tutti i mali (e invece ne creava) fu smentita ancora una volta dalla larga maggioranza del popolo italiano. Casualità? A voi la riflessione.

Non meno profetica è stata rispetto ai risultati delle regionali. Prospettava gli scenari più vari: scioglimento delle camere, elezioni anticipate, Matteo Salvini vittorioso e al Governo, l’apocalisse. Scenari, anche questi, prontamente smentiti dagli elettori. Ha perso Salvini che, pur avendo dichiarato il suo Sì al taglio, ha fatto fare la campagna per il No ai big del suo partito, sperando intimamente che questo vincesse per poter rovesciare il governo (dimenticando che anche il suo partito aveva sostenuto il Sì alla riforma in Parlamento). Se non ha vinto la partita del referendum, certamente ha perso quella delle regionali. Trionfante, qualche settimana fa annunciava: “Vinceremo 7 a 0”.

Invece del cappotto, ha portato a casa un pareggio deludente (è da vedere ancora la Valle d’Aosta) che sa di sconfitta. Sì, perché anche dove ha vinto Salvini è riuscito a perdere: in Veneto dove la lista personale di Luca Zaia, cioè il meno leghista della Lega, ha preso più del 40%, nelle Marche dove ha trionfato il candidato di Fdi e nella Liguria del forzista Giovanni Toti. Ma soprattutto ha perso (e anche male) la partita sulla quale più aveva puntato: strappare la Toscana al centrosinistra (esattamente come qualche mese fa in Emilia Romagna). Entrato papa alla vigilia, ne è uscito cardinale.

Ha perso Renzi che è stato irrilevante per l’elezione di Eugenio Giani in Toscana (aveva mal calcolato evidentemente la paura per l’elezione della Ceccardi), fallendo anche in Puglia nel tentativo di far perdere Michele Emiliano, candidando l’inconsistente Scalfarotto (e andando, per l’occasione, insieme all’altrettanto irrilevante Calenda), destinato a prendere meno del 2%.

Ha perso la parte barricadera del M5s (Alessandro Di Battista su tutti), troppo impegnata a picconare per principio l’alleanza 5stelle-Pd per accorgersi che, restando sulla linea oltranzista, il M5S è destinato all’irrilevanza territoriale (il che non è una novità) e troppo impegnata a rivendicare la purezza del movimento per rendersi conto che una delle riforme simbolo era passata proprio grazie a quell’alleanza.

Ha vinto Giuseppe Conte (e il suo governo) che aveva spalleggiato una convergenza tra le forze di maggioranza anche sui territori, indicazione che tra l’altro era giunta anche dalla base Cinque Stelle che si era espressa in questo senso sulla piattaforma Rousseau e che, evidentemente, si è mostrata più matura e lungimirante dei vertici, premiando nelle regioni dove si giocava la partita più delicata per l’esecutivo il candidato del centrosinistra, sfruttando il voto disgiunto (ascoltando l’intelligente appello di Marco Travaglio).

Hanno vinto Nicola Zingaretti e il Pd (e questa certamente è una novità), che sta faticosamente cercando di uscire dal tunnel del renzismo, ma il percorso è ancora lungo e irto di ostacoli interni (ricordiamoci che buona parte dei gruppi parlamentari usciti dalle politiche del 2018 sono espressione di quella scellerata parentesi).

Ha vinto anche Luigi Di Maio, che lasciato solo a fare la campagna per il Sì dal resto del Movimento, ci ha messo la faccia tra Sì tiepidi e poco convinti (soprattutto da sinistra) e No spinti da una stampa mossa per lo più da interessi particolaristici (altro che difesa della Costituzione) e dal centrodestra, bramoso di rovesciare Conte. E, diciamolo, ha vinto anche il popolo italiano che, nonostante la pandemia, ha dimostrato di non mancare all’appello, nonostante qualcuno, in fondo, ci sperasse.

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