di Donatello D’Andrea

In molti hanno espresso fiumi di parole sul declino della classe dirigente del Paese, della politica e dei grandi leader in Italia, ma mai nessuno si è chiesto se cause e conseguenze di tale generazione non siano da rinvenire anche negli elettori, in coloro che esprimono le proprie preferenze affidandosi non ai programmi bensì alle a simpatie personali, al proverbiale “partito preso” o, peggio, al “meglio tutti che lui” che tanto va di moda ultimamente.

Non è facile stabilire se il declino degli elettori vada di pari passo, sia complementare o consequenziale a quello del modo di fare politica da parte dei partiti, ciò che è certo, invece, è che l’istruzione rappresenta un fattore fondamentale, assieme alla capacità di informarsi, di questo repentino cambio di passo nella capacità dell’elettorato di esprimere le proprie preferenze.

Se prima la caratura politica e la destrezza di un leader erano due delle caratteristiche fondamentali per farsi eleggere, oggi non è più così. L’elettore non cerca il migliore tra i migliori, bensì un suo alter ego, un individuo simile a lui.

“Lui è come me, è semplice come me, fa le stesse cose che faccio io”. Un esempio calzante potrebbe essere quello di Matteo Salvini e la Nutella ma anche Roberto Fico che prende i mezzi pubblici o Matteo Renzi che va in giro in bici con il fotografo.

Il politichese, un termine che oggi ha assunto dei connotati negativi, è a più riprese rigettato in favore di una terminologia spicciola, semplice, anche troppo. Una delle conseguenze di questo nuovo modo di comunicare è quella di aver abituato l’elettore a ricercare risposte semplici a termini complessi. In questo caso gli esempi si sprecano. Dall’immigrazione alla politica estera in genere, dalla geopolitica all’economia.

L’uso dei social, in questo senso, ha peggiorato notevolmente la capacità dell’elettorato di discernere la verità dalla fantasia, la propaganda dall’informazione e i primi a rimetterci sono proprio i giornalisti, più volte accusati di raccontare il falso solo perché quel leader ha una soluzione più semplice di quella raccontata.

L’uso improprio dei social network ha spostato il baricentro della discussione politica in un luogo fittizio dove con duecento caratteri si può impostare una campagna elettorale. Un abbaglio per chi crede che un tema complesso possa essere esaurito in quattro parole o poco più. Pensate, ad esempio, alla guerra civile libica o all’emergenza migratoria, come si fa a risalire alle cause, a trattare con sufficienza l’argomento in un post di Facebook?

Senza contare che l’elettore sui social assume le fattezze del cane da guardia del proprio candidato, dell’idea (parola grossa) di cui si fa portavoce con violenza verbale e gogne mediatiche gratuite.

Scambiare i social per l’agora del Paese è l’ennesimo abbaglio a cui la politica pop ci ha inesorabilmente costretti. Facebook, Instagram, Twitter sono diventati i bar di Umberto Eco, una moderna cloaca a cielo aperto dove lo scontro è ricercato con provocazioni e ironia spicciola.

Recuperare il “fare politica” anche da parte dell’elettorato è difficile, poiché i candidati, ovviamente, fanno ciò che può loro portare voti. Se i social sono funzionali alla loro attività, spingeranno sempre in quella direzione. Ecco perché il doppio binario del declino elettore-eletto ha bisogno di una soluzione che sia complementare.

Se gli elettori daranno una risposta, e l’eletto recepirà il messaggio, forse la politica tornerà ad essere una cosa seria.

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