“Non posso spostarmi dal mio villaggio perché la polizia e la gendarmeria mi chiedono i documenti. Io non ne ho, e allora mi chiedono soldi. Non potendo pagare, mi minacciano di picchiarmi e di arrestarmi”. Se mai ci fossero dubbi sul dramma dell’apolidia, le parole di Joseph, 23enne della Costa d’Avorio, aiuterebbero a comprenderlo. La sua era una delle tante testimonianze raccolte dall’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) per la campagna “Io esisto”. Senza accesso ad educazione, sanità ed un impiego regolare, gli “invisibili” nel mondo sono circa 12 milioni, di cui la maggior parte in Africa. Proprio qui si è appena fatto un passo avanti per migliorarne la condizione.
A inizio settembre la Costa d’Avorio si è distinta come primo Paese africano ad aver adottato una procedura ufficiale per il riconoscimento dell’apolidia, istituendo due apposite commissioni. “È una pietra miliare che aiuterà a proteggere gli apolidi, consentendo loro di accedere a diritti fondamentali che sono rimasti fuori portata per decenni”, ha dichiarato Aissatou Ndiaye, Vicedirettrice dell’ufficio dell’Africa occidentale e centrale dell’Unhcr.
Secondo i dati raccolti nel 2019 dalle autorità locali e dall’agenzia Onu per i rifugiati, i “senzapatria ivoriani” sono almeno 700mila, fino anche a 1,6 milioni considerando i soggetti a rischio di apolidia. Con una popolazione di 25,7 milioni, lo Stato africano ha il più alto tasso al mondo di persone prive di status legale, la cui maggioranza proviene da quello che oggi è il Burkina Faso, già “Alto Volta” in epoca coloniale.
Quando i francesi si insediarono in Costa d’Avorio cominciarono a coltivare piantagioni di cacao e reclutarono con la forza numerosa manodopera dall’Alto Volta. Dopo l’indipendenza del 1960 però, gli stranieri non ottennero mai la cittadinanza ivoriana, non avendo che quella francese sotto l’autorità coloniale. Infatti, il Codice di nazionalità ivoriano del 1961 era tra i più rigidi dell’Africa occidentale e subì ulteriori restrizioni nel 1972, aggravando la situazione dell’apolidia che, in buona parte, si tramanda ancora da generazioni. Secondo Bronwen Manby, esperta di diritto africano sulla cittadinanza, “il fallimento nel riconoscere le ingenti migrazioni dell’epoca coloniale e nel conferire la nazionalità ai residenti nei Paesi dell’Africa occidentale, al momento della loro transizione verso l’indipendenza, ha ancora conseguenze”.
Quello sulla nazionalità è un tema ricorrente nel dibattito politico della Costa d’Avorio, che negli anni ’90 ne ha avvelenato il clima, sulla scia dell’ivorianità, ideologia diffusa dall’allora presidente Henri Konan Bédié, che introdusse politiche xenofobe. Nel 1995, persino l’attuale presidente Alassane Ouattara fu escluso dalle elezioni poiché di discendenza burkinabè.
Il traguardo giunge dopo gli sviluppi degli ultimi anni, a partire dal 2013, quando Ouattara firmò una legge che concesse alcune migliaia di cittadinanze, e per questo fu accusato di cercare facili consensi. Nello stesso anno ha sottoscritto le Convenzioni internazionali sull’apolidia del 1954 e del 1961.
L’instabilità del continente ed i flussi migratori che attraversano frontiere porose fanno dell’apolidia un problema condiviso nell’area. Nel 2015 infatti, i 15 Paesi della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) hanno firmato la dichiarazione di Abidjan per eradicarla entro il 2024, ribadita dal Piano di azione di Banjul del 2017, l’unico al mondo che vede un’intera regione d’accordo nel risolvere il problema.
Tornando al cacao ivoriano, secondo un rapporto dell’organizzazione Anti-Slavery International, per la sua produzione sono impiegate migliaia di persone senza documenti, trafficate dagli Stati vicini. Tra questi, nelle piantagioni giunge un largo numero di minori, mai registrati all’anagrafe dei Paesi di origine. Piccoli apolidi crescono.
(immagine d’archivio)