Tutto ruota intorno a un paradosso. Perché la loro assenza in questa fase della stagione è anche la garanzia della loro presenza in un futuro neanche così remoto. Troppo difficile immaginare una Serie A senza di loro. Anche in questo periodo dove i budget ridotti all’osso rendono praticamente impossibile la costruzione di una squadra a loro immagine e somiglianza. C’è chi ha fatto indigestione di titoli nazionali, chi si è trasferito all’estero nel tentativo di instaurare un lungo dominio, chi ha guidato una nobile al successo dopo una lunga gavetta. Profili diversissimi che all’improvviso si sono ritrovati nella stessa, identica, situazione: senza uomini da mandare in campo, senza un allenamento da dirigere, senza una panchina da occupare. Massimiliano Allegri, Luciano Spalletti e Maurizio Sarri sono tre allenatori con una idea di calcio ben definita e riconoscibile, tre allenatori che in questo calcio dell’era del Covid-19 sono costretti ad aspettare un’occasione, un licenziamento di un collega, la debacle di una squadra da ricostruire.
Allegri è quello che più è stato vicino a un ritorno in sella. Perché su di lui si sono posati gli occhi della Roma, già stanca del suo allenatore dopo appena una partita, quel pareggino contro il Verona trasformato in sconfitta a tavolino per l’iscrizione in lista di Diawara. Un episodio surreale che è anche la spia della complicata situazione lasciata in dote da Pallotta. La Roma è un club con una rosa piena di spine e con progetti ancora da chiarire. Troppo poco per convincere un allenatore che con la Juventus ha giocato, e perso, due finali di Champions, e che ora vuole provare a svestire quei panni che gli sono stati cuciti addosso (anche con la sua complicità). Dopo l’eliminazione subita dall’Ajax, infatti, molti hanno contestato ad Allegri l’assenza di un’identità di gioco, di uno stile preciso e riconoscibile. Quello della sua Juventus era un calcio muscolare e soverchiante, ma quasi mai dominante. I singoli venivano prima dell’idea di comunità in campo, i loro spunti sovrascrivevano gli schemi. Allegri aveva iniziato una sua personalissima battaglia per dimostrare che il calcio era questione molto più semplice di quanto sostenessero gli analisti: rivendicando orgogliosamente che un tecnico doveva limitarsi a scegliere i giocatori più forti e compatibili e a mandarli in campo. Senza l’aiuto della tecnologia e della statistica. Il tecnico livornese ha quasi predicato l’assenza di schemi nelle sue squadre, ha demonizzato quel calcio cibernetico che sta diventando una realtà non trascurabile e, soprattutto, vincente. Ora la sua filosofia, però, sembra incompatibile con quella della maggior parte dei club, decisa ad avviare progetti tecnici che siamo immediatamente riconoscibili.
Più complicata, invece, la situazione di Luciano Spalletti, un tecnico spinto dai suoi risultati ma frenato da un carattere estremamente difficile. Un creatore di tempeste, secondo una bella definizione di Marco Ciriello, un allenatore che ha una filosofia di gioco ben chiara e delineata sulla quale innestare poi delle trovate notevoli (Perrotta e Nainggolan trequartisti, la difesa a tre e mezzo). La sua parentesi all’Inter è stata piuttosto contraddittoria. E non tanto per colpa sua. Spalletti ha centrato l’obiettivo quarto posto con un mercato stile bonsai rispetto a quello che la società ha offerto ad Antonio Conte, poi è stato licenziato in tutta fretta per far posto all’ex Chelsea. Lo scorso anno il Milan aveva pensato a lui dopo il fallimento tecnico di Giampaolo, ma i nerazzurri non hanno voluto liberarlo. Meglio sul proprio libro paga che sulla panca dei cugini. Nella sua estate non ci sono stati schemi da disegnare, ma video per presentare ai suoi follower la paperella Biancaneve, che faceva colazione con i biscotti. Troppo poco per un tecnico del suo spessore che ora è costretto ad aspettare che si liberi una panchina di livello per poter tornare in corsa.
Un’attesa che lo accomuna anche a Maurizio Sarri, il tecnico chiamato a trapiantare a Torino il bel gioco fatto vedere a Napoli, a dimostrare che finalmente si poteva vincere restando fedeli alla propria identità. Il Comandante che aveva sbertucciato il Palazzo si è seduto fra i potenti. L’innesto però non ha dato i risultati sperati. La Juventus è raramente sembrata “sarriana”. E sulla bilancia lo scudetto conquistato ha pesato molto meno dell’eliminazione agli ottavi contro il Lione. Così Sarri è stato accompagnato alla porta senza troppi salamelecchi. Alla fine si è risolto tutto in una questione di tempo: quello che la Juventus non ha voluto dargli per portare a termine la trasformazione, quello che ora dovrà aspettare prima di sedersi nuovamente in panchina.