Nella sua corsa a ostacoli, riuscirà il governo Conte II a reggere la prossima sfida? Dopo aver doppiato efficacemente la Fase Uno, il contenimento di una pandemia sconosciuta attraverso un severo lockdown, poi superata brillantemente la Fase Due, la ritessitura di rapporti con i partner europei grazie alla riconquistata credibilità (anche grazie alla partecipazione attiva all’elezione del presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen), ora il premier si appresta in prima persona a guidare il Paese tra le secche e gli scogli affioranti della Fase Tre: indirizzare i cospicui finanziamenti europei del Recovery Fund a una sorta di risanamento nazionale dai numerosi malanni che ci affliggono da decenni. In primo luogo il declino economico, con i conseguenti impatti sociali e civili.

Una domanda che investe direttamente la figura del premier: l’avvocato dal chiaro profilo moroteo, introdotto alla politica come intermediario professionale tra i soci contraenti il patto di governo giallo-verde e poi uscito dalla crisalide per volare in proprio alla guida della compagine giallo-rosa. Mentre l’Italia precipitava – con il Covid-19 – in un’emergenza drammatica, prima di ogni altro Paese occidentale.

Nella mutazione da bruco a farfalla Giuseppe Conte si rivelava un abile mediatore nel ripianare le asperità (Fase Uno) e un efficace ambasciatore nel consesso di Bruxelles (Fase Due). Ma questa non è più l’ora né del tessitore, né del diplomatico. Semmai è il momento del “builder”, del costruttore. Insomma, il premier ha rivelato doti che i consulenti alla moda, tipo Nassim Taleb, considerano essenziali per avere successo di questi tempi: la rersilienza (reggere agli urti) e l’antifragilità (prosperare nel caos).

La sua attitudine versatile gli consentirà di andare oltre la dimensione adattiva per affrontare un “cigno nero” quale il Recovery Fund? Ossia l’evento assolutamente impensabile fino al 27 maggio scorso dell’arrivo di oltre 200 miliardi di euro a patto di saperli spendere nel compito che all’Italia riesce difficile persino concepire: programmare e governare radicali processi di cambiamento.

Le strategie che potremmo definire “newdealistiche” perché diventate paradigma di costruzione democratica del futuro a partire dagli anni Trenta del secolo scorso e dalla presidenza americana di Franklin D. Roosevelt: il ruolo dello Stato in quanto aggregatore e regista delle risorse pubbliche e private, l’individuazione di specializzazioni competitive a misura delle vocazioni e dei saperi, la valorizzazione di settori da promuovere come locomotive di sviluppo, il varo di vasti programmi di infrastrutturazione e – ultimo ma non ultimo – la capacità della leadership di mobilitare l’intera collettività nel progetto di nuovo inizio attraverso una narrazione che trasformi l’azione in una sorta di epopea.

Un po’ come epopea diventò il Miracolo Economico italiano degli anni Cinquanta. Operazione – va detto – realizzata con successo in numerosi casi europei di uscita dalla depressione da de-industrializzazione degli scorsi decenni; ma che rimanda ad attitudini assenti nel Dna nazionale o a esperienze dimenticate. Come il Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) guidato negli anni Sessanta da Giorgio Ruffolo. O – magari – l’apprezzabile tentativo di coniugare coesione sociale e sviluppo economico promosso dal ministro Fabrizio Barca tra il 2011 e il 2013, nel non propriamente apprezzabile governo guidato da Mario Monti.

Saprà il poliedrico Conte indossare la veste rooseveltiana, dopo il completo blu del pacificatore e del partner internazionale? Soprattutto, dopo il referendum del 21 settembre, il Parlamento saprà diventare un consesso all’altezza della sfida? Mentre il primo gruppo parlamentare subisce le suggestioni suicide di un anti-parlamentarismo per pasticcioni velleitari alla Di Battista o alla Lezzi. Ennesima performance distruttiva del reazionario mimetizzato nella chiacchiera post-qualcosa Beppe Grillo.

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