Diritti

Roma, il caso del cimitero dei feti: sulle croci i nomi delle madri che hanno abortito e quella prassi che nasce da un regio decreto del 1939

A ogni croce nel prato del cimitero Flaminio è legato un nome e cognome femminile: sono le generalità delle donne che hanno firmato un modulo dove chiedono di occuparsi dello “smaltimento” del feto. Quasi nessuna era cosciente che ci sarebbe stata la sepoltura del corpicino, come se si trattasse di un individuo nato e poi defunto. Giovanna Scassellati, responsabile dell’Uosd ‘Legge 194’: “Abbiamo fatto della laicità e dei diritti delle donne una bandiera in questo ospedale. Se c’è stata una violazione della privacy, è una responsabilità dell’azienda capitolina”

Una distesa di croci spoglie. Ognuna ha una scritta col pennarello indicante il nome di una donna e un numero di registro. Ce ne sono qualche centinaio al cimitero Flaminio di Roma, uno dei più grandi d’Europa. Nessun fiore, nessuna luce votiva, solo qualche giocattolino. Erano tecnicamente “feti”, frutto di aborti spontanei o terapeutici, comunque fra la 20° e la 28° settimana, quindi oltre i 90 giorni contemplati dalla legge 194/78 per l’aborto volontario ma previsti per ragioni sanitarie. A ogni croce è legato un nome e cognome femminile, ma il sesso del feto non c’entra nulla. Sono le generalità delle donne che, all’indomani dell’intervento abortivo, hanno firmato un modulo dove chiedono all’ospedale di occuparsi dello “smaltimento” del feto, “secondo le normative vigenti”. Quasi nessuna di loro era davvero cosciente del fatto che quella liberatoria avrebbe portato alla sepoltura del corpicino, esattamente come se si trattasse di un individuo nato e poi defunto. Fra le tante, a scoprirlo, quasi per caso, è stata Marta Loi, una donna romana che giorni fa ha postato su Facebook la foto della tomba con il suo nome, denunciando che “è tutto scandalosamente assurdo, la mia privacy è stata violata”. L’ennesimo strazio dopo l’esperienza dell’aborto all’ospedale San Camillo di Roma. Sulla vicenda ora è intervenuto anche il garante della Privacy, che ha deciso di aprire un’istruttoria “per fare luce su quanto accaduto e sulla conformità dei comportamenti, adottati dai soggetti pubblici coinvolti, con la disciplina in materia di privacy“.

La “prassi” e il regio decreto del 1939 – Le “normative” vigenti, infatti, prevedono che i feti morti il 5° e il 7° mese vengano seppelliti – salvo diverse disposizioni – proprio come fossero normali defunti. Il riferimento è il regolamento di polizia mortuaria del 1990, che fa addirittura capo al regio decreto del 9 luglio 1939 (articolo 74), una legge di ben 81 anni fa nel quale si legge che “per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età di gestazione dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina e che all’ufficiale di stato civile non siano stati dichiarati come nati morti, i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale”. Lo stesso però specifica che “i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale, accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto”. Insomma, perfino il regio decreto di epoca mussoliniana prevedeva la “domanda di seppellimento” da parte dei genitori, che tuttavia “per prassi” – e in mancanza di ulteriori aggiornamenti – viene svolta ugualmente se i genitori si disinteressano dello “smaltimento” del “prodotto abortivo”.

I nomi sulle croci e la sepoltura del “prodotto abortivo” – Il risultato è lo sconsolante scenario che ci si trova di fronte al cimitero Flaminio. Ma perché quelle croci targate con i nomi delle donne? È l’altra questione cardine del caso Marta Loi. I servizi cimiteriali a Roma sono affidati alla municipalizzata Ama, che tuttavia non dovrebbe essere in grado di conoscere le generalità di un “rifiuto ospedaliero” o “prodotto abortivo”, se non comunicato dall’ospedale. Tuttavia, il San Camillo, nosocomio laico, regionale e legato alla Asl Roma 3, fa sapere che “le attività relative al trasporto, alla gestione e seppellimento del feto sono di completa ed esclusiva competenza di Ama”, la quale ribatte che “la sepoltura è stata effettuata su specifico input dell’ospedale” e che “l’epigrafe deve in ogni caso riportare alcune indicazioni basilari per individuare la sepoltura da parte di chi ne conosce l’esistenza e la cerca”. Cioè quasi nessuno, a quanto pare. La signora Loi, d’altro canto, solo in un secondo momento si è ricordata che qualcuno, in ospedale, in un momento delicato e particolare, la informò del fatto che “il feto verrà comunque seppellito per beneficenza” e che “avrà un suo posto con una sua croce e lo troverà con il suo nome”. Segno che la prassi è nota e condivisa nei vari passaggi.

L’Uaar attacca, il San Camillo si difendeAdele Orioli, legale dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar), cui si è rivolta Loi, commenta che “questa è l’ennesima criminalizzazione delle donne che decidono di abortire o, come in questo caso, sono costrette per motivi di salute: o trovi i soldi per occuparti del feto, oppure devi sottoporti a una violazione della privacy e all’apposizione di un simbolo religioso mono-confessionale”. Dal 2012, fra l’altro, a Roma è possibile, per chi lo richiede, far sotterrare i feti nel ‘Giardino degli Angeli’ in un altro cimitero, il Laurentino, visitato recentemente da Papa Francesco, nel quale opera un’associazione ultracattolica ‘Difendere la Vita con Maria’, che però prende le distanze dall’episodio: “Esiste un protocollo d’intesa con il Comune di Roma ma è solo ed esclusivamente legato alla volontà dei genitori e allo spazio del Laurentino”, spiega il vicepresidente Emiliano Ferri. Lo conferma a Ilfattoquotidiano.it anche Sveva Belviso, ai tempi vicesindaca: “Quell’accordo riguardava esclusivamente il cimitero Laurentino, se avessimo intrapreso altre iniziative le avremmo pubblicizzate senza alcuna vergogna”. Giovanna Scassellati, responsabile dell’Uosd ‘Legge 194’ del San Camillo, è categorica: “Abbiamo fatto della laicità e dei diritti delle donne una bandiera in questo ospedale, escludo che qualsiasi tipo di intermediario non istituzionale abbia potuto intervenire. Non accetto criminalizzazioni in questo senso. Se c’è stata una violazione della privacy, è una responsabilità dell’azienda capitolina”. O di un regolamento che traduce in “prassi” un regio decreto di più di 80 anni.