“Ce la possiamo fare”. Sono passati cinque anni da quando Angela Merkel sigillò così la scelta di accogliere in Germania oltre un milione di profughi siriani. Oggi il 49% di loro ha un lavoro o è attivo in un tirocinio e tre quarti hanno lasciato i centri per rifugiati e per trovarsi una casa. Risultati parziali che però lasciano ben sperare, tanto che dal 2016 anche la preoccupazione dell’opinione pubblica è andata calando. E noi, ce la possiamo fare? La risposta è no, almeno per ora. Il bilancio negativo lo fanno quindici giuslavoristi in un libro che esce il primo ottobre, ‘Migranti e Lavoro‘ (il Mulino, 2020). Una fotografia dell’immigrazione in Italia dalla prospettiva del diritto del lavoro, che “quando incontra quello degli immigrati rischia di tradire i suoi stessi principi”, dice citando il libro William Chiaromonte, ricercatore di Diritto del lavoro all’Università di Firenze e tra i curatori del volume. Che spiega: “Se il fine è tutelare quella che nel rapporto è la parte debole, di fronte al lavoratore straniero ci sono vuoti importanti, a partire dalla parità di trattamento”.
Affari loro? No, affari nostri. Perché così l’Italia mette a repentaglio il suo futuro. Quasi non fosse un paese che invecchia, che senza immigrati perderà milioni di persone in età da lavoro nel prossimi anni – un disastro per la tenuta del welfare – l’Italia è ferma a vent’anni fa, alla legge Turco-Napolitano del 1998. Anzi, dalla legge Bossi-Fini del 2002 ai recenti decreti Sicurezza del primo governo Conte, ha fatto importanti passi indietro. Oggi chi intende entrare regolarmente in Italia per motivi di lavoro deve avere un contratto già prima di partire dal suo paese di origine. Il legislatore ha infatti abolito l’istituto dello sponsor, la possibilità di essere sostenuti da soggetti terzi, che garantivano per lo straniero fino all’ottenimento dell’occupazione. Ma è stato fatto di più e di peggio. La programmazione triennale prevista dalla legge del ’98 per determinare anche gli annuali ingressi è stata bruscamente interrotta nel 2008, riducendo tutto alla decretazione dei flussi, un puro calcolo quantitativo rivolto spesso ai soli stagionali e incapace di rispondere alle esigenze del mercato del lavoro. Il risultato è nei numeri dell’ultimo decennio.
“Se nel 2011 i permessi assegnati a stranieri extra-Ue per motivi di lavoro erano il 34% e quelli per asilo o protezione appena l’11%, già nel 2016 i primi scendono al 5,7% e i secondi arrivano al 34,3%”, si legge nel capitolo curato dal ricercatore del CNR Michele Colucci. Insomma, una sostituzione. I migranti economici continuano ad arrivare, ma con la legge che si mette di traverso entrano in Italia attraverso il rocambolesco percorso che li condurrà, forse, allo status di rifugiato. Percorso che ritarda enormemente l’ingresso nel mondo del lavoro, e che i decreti voluti da Salvini hanno ulteriormente zavorrato, precludendo ai richiedenti di accedere ai servizi per il lavoro e la formazione e cercando addirittura di impedirne l’iscrizione all’anagrafe. Un ostacolo che hanno dovuto rimuovere i tribunali. Sono i termini di un paradosso che mette il nostro paese all’ultimo posto in Europa per permessi di soggiorno per motivi di lavoro sul totale di quelli rilasciati (siamo al 6,3%) e che parafrasando il libro si può riassumere così: quelli che vogliono lavorare non entrano, quelli che entrano non li facciamo lavorare. Tanto che la vera legge vigente, scrivono gli autori, “è quella dell’irregolarità”.
Perché se ai migranti economici l’ingresso è di fatto precluso dalle norme, per tutti gli altri le norme semplicemente non ci sono. Chiaromonte avverte: “In un paese che dovrebbe puntare a diminuire il giro d’affari dell’economia sommersa, si sta facendo l’esatto contrario”. Ma spesso, anche quando il lavoro è regolare lo status dello straniero è così dipendente dal rapporto di lavoro che innesca forme di sfruttamento, a partire dall’iniquità nella retribuzione. E se poi il permesso di soggiorno scade, non c’è lavoro che tenga, perché quello ottenuto per diritto d’asilo non è convertibile in un permesso per motivi di lavoro. Parliamo di più di due milioni e mezzo di persone, tanti sono i lavoratori stranieri regolari in Italia, per le quali l’irregolarità rimane sempre dietro l’angolo. Non stupisce che il nostro paese non sia in grado di approfittare di uno strumento come la carta blu. Figlia di una direttiva europea del 2009 che l’Italia ha recepito, è un corridoio preferenziale per attrarre migranti economici altamente qualificati. E rappresenta un altro flop, non solo per l’Italia, visto che anche nel 2019 l’87% delle carte sono state attivate in Germania. Che il nostro paese non abbia bisogno di migranti economici? Chi lo dice nega l’evidenza.
“Non avremmo fatto otto sanatorie negli ultimi anni”, ribatte Chiaromonte, che insieme ai suoi colleghi torna a sfatare alcuni miti particolarmente tenaci. A partire dal costo della presenza straniera e dal sempre verde “ci rubano il lavoro”. Gli immigrati contribuiscono ormai al 10% del Pil e secondo l’Inps gli immigrati regolari versano 9 miliardi di euro in più di quello che ricevono come servizi, dalle pensioni agli assegni familiari. Quanto alla concorrenza, “quello dei migranti è per lo più un mercato del lavoro parallelo a quello degli autoctoni”, spiega Chiaromonte, “segmentato e caratterizzato da lavori dove la presenza italiana è residuale”. La platea alla quale si sono rivolte le sanatorie, compresa quella voluta dalla ministra Bellanova in pieno lockdown, lo confermano. L’iniziativa governativa ha infatti regolarizzato, nell’87% dei casi, lavoratori e lavoratrici dediti ai servizi domestici alla persona. Insomma, degli stranieri abbiamo bisogno. Anzi, sempre secondo l’Inps, se quelli regolari dovessero sparire nel 2040 avremmo 73 miliardi in meno di entrare contributive per pagare le pensioni dei nostri anziani. Le soluzioni ci sono, ma è meglio smetterla con l’alibi dell’Europa e attendere che vengano da lì. Perché per intervenire in materia l’Ue ha bisogno del voto unanime di tutti gli stati, e come è accaduto per l’Agenda europea sulla migrazione del 2015 voluta dalla Commissione Juncker, anche i recenti, buoni propositi della nuova presidente Ursula Von der Leyen sulle responsabilità condivise probabilmente rimarranno tali.
Perché se l’Ue definisce le condizioni di ingresso e di soggiorno, lascia ai singoli stati di contingentare gli ingressi. Allora tocca ripartire dal nostro ordinamento e renderlo capace di darci gli strumenti necessari a risposte ad alcune domande: di quante persone ha bisogno il nostro mercato del lavoro? Che tipo di persone possiamo attrarre e quale futuro possiamo offrire loro perché partecipino al benessere del paese? Tra le soluzioni, Chiaromonte mette in testa la programmazione: “Va reintrodotta e vanno riviste nel complesso le norme sull’accesso al nostro paese, reintroducendo un istituto importante come quello dello sponsor”. Un auspicio che nel 2019 il Cnel ha inserito in un documento di proposte per i “nuovi ingressi per lavoro”. Quanto alla revisione dei decreti Salvini, e all’ipotesi che finalmente sia normata la conversione di alcuni permessi in mano ai rifugiati in permessi per lavoro, Chiaromonte è netto: “Un enorme passo avanti contro l’irregolarità, che purtroppo è aumentata”, come dicono i dati sugli irregolari. Cresciuti dopo la cancellazione della protezione umanitaria voluta dal leader della Lega, mentre i rimpatri promessi sono fermi al palo, stabili sotto le settemila unità l’anno. “Ma non illudiamoci”, avvertono Chiaromonte e colleghi, “c’è bisogno di una rilettura totale dell’impianto normativo, servirebbe una commissione che riprenda in mano il Testo unico dell’immigrazione per ripensarlo e aggiornarlo, perché sono vent’anni che ci diciamo le stesse cose”.