La Cina raggiungerà la neutralità carbonica – cioè “emissioni zero” – prima del 2060 e garantisce che il suo picco di emissioni di gas serra si verificherà entro il prossimo decennio. L’ha promesso il presidente Xi Jinping all’assemblea generale delle Nazioni Unite, in un colpo di scena molto politico, perché funzionale anche a controbattere le variegate accuse che Donald Trump ha rivolto a Pechino.
Nel vertice online con l’Ue, Xi Jinping aveva già lasciato intendere che avrebbe assunto una posizione più forte sul clima, tuttavia, è la prima volta che la Cina si impegna con date precise sulla propria decarbonizzazione. In precedenza, Pechino aveva solo comunicato di voler collocare il proprio picco delle emissioni intorno al 2030, quindi le dichiarazioni di Xi appaiono un punto di svolta nella lotta globale al cambiamento climatico perché danno impulso a tutti gli altri e perché la Cina da sola produce circa un quarto dei gas serra al mondo. Più di tutti.
Ora la scadenza è il Cop26 previsto a novembre 2021, quando tutti dovranno fare nuove proposte concrete, ma intanto possiamo ipotizzare: al di là delle dichiarazioni, cosa può fare realisticamente Pechino?
La Cina è un gigante energivoro dalla doppia faccia. Come osserva un recente articolo di Nature, nel 2019 ha consumato 3,3 miliardi di tonnellate di petrolio e dal 2011 ha bruciato più carbone di tutti gli altri paesi messi insieme. Ha una capacità di oltre mille gigawatt (gw) a carbone, con la quale genera il 49 per cento dell’elettricità alimentata a carbone nel mondo, secondo l’Economist. Va inoltre detto che nel pacchetto di misure decise dal governo cinese in risposta alla crisi del coronavirus ci sono piani per la costruzione di nuove centrali elettriche a carbone, seppure più efficienti e moderne.
Per alleviare il peso sull’ambiente, esistono politiche specifiche e localizzate già in corso, come per esempio il passaggio dal carbone ad altre fonti energetiche nei riscaldamenti domestici. Pechino, la capitale, ha lanciato nel 2013 un programma per diventare “coal free” – libera dal carbone – e secondo Greenpeace è già a buon punto, cosa che si sentirebbe di sottoscrivere qualsiasi abitante della città, che in pochi anni ha visto ridursi pressoché a zero la richiesta di articoli basati sul neologismo anglofono “airpocalypse” dalle redazioni italiane. Tuttavia, passare dai riscaldamenti a carbone a quelli a metano fa benissimo ai polmoni, ma molto meno al buco nell’ozono.
Il vero, grande cambiamento è ciò che in fondo la Cina sta già tentando di fare da anni e, secondo stile locale, tiene d’occhio le ragioni economiche, sociali e politiche almeno quanto ambientali. La Cina vuole trasformare tutta la propria economia da “fabbrica del mondo” – inquinante – a economia avanzata, basata sui servizi ad alto valore aggiunto e sui consumi interni. Insomma, meno ferro, cemento, carbone e più tecnologia, produzioni soft a impatto zero. Ed è anche per questo che Pechino insiste molto sulla riapertura dei canali commerciali, sul trasferimento di tecnologia, messi a rischio dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti.
Tuttavia anche un cambiamento del genere non garantisce minori consumi. Secondo la multinazionale petrolchimica BP, nel 2018 la Cina ha rappresentato il 24 per cento del consumo energetico globale; per il 2040, sarà ancora in vetta alla classifica con circa il 22 per cento.
Ma questa è solo una parte della storia ed ecco la seconda faccia del gigante energivoro: la Cina è anche il più grande produttore globale di energia eolica, con capacità più che doppia rispetto al secondo generatore, gli Stati Uniti. Ed è in grado di produrre circa un terzo del solare al mondo, tant’è che i suoi impianti fotovoltaici esercitano quasi una forma di dumping rispetto a quelli prodotti altrove.
La sua capacità eolica e solare sommata è di 445 gw, meno della metà rispetto al carbone, inoltre le centrali a energie rinnovabili funzionano di solito a capacità inferiore rispetto a quelle tradizionali. Ma – sempre secondo l’Economist – la Cina ha anche 356 gw di capacità idroelettrica, che è più di quanto riescano a generare i quattro paesi che la seguono nella speciale classifica. Ha inoltre costruito centrali nucleari più velocemente di qualsiasi altro paese – l’età media dei suoi 48 reattori è inferiore a un decennio – e intende continuare a farlo, dopo una moratoria che ha fatto seguito al disastro di Fukushima. Il nucleare, che ora produce meno del 5 per cento dell’elettricità del paese, dovrebbe produrne oltre il 15 per cento entro il 2050.
Insomma, è probabile che quando Xi Jinping fa promesse abbia in mente un graduale – c’è tempo fino al 2060 – scivolamento verso un pacchetto energetico diversificato, non certo un contenimento dei consumi, che con un ceto medio in espansione e vorace non si vede all’orizzonte.
A favorire questa transizione verso energie alternative, ci sono anche considerazioni strategiche. La Cina dipende da importazioni di petrolio che passano in gran parte dallo stretto di Malacca, un corridoio di mare facilmente ostruibile da un eventuale nemico che potesse esercitare una superiorità navale, leggi Stati Uniti. Tutto si tiene, in questo caso: diversificazione energetica, potenziamento della flotta e rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale.