Tra “Karaoke” e “Ciclone” questa estate si è fatta spazio la ballad controcorrente “Superclassico” del rapper Ernia che ha appena conquistato il doppio disco di platino. A soli 26 anni, Matteo Professione, ha all’attivo 4 album, l’ultimo è “Gemelli”, uscito il 19 giugno e già disco di platino. Questi sono solo i numeri e un ottimo biglietto da visita. Ernia racconta storie basate sulla sua vita dall’amore all’apatia, passando per le amicizie, e lo fa fotografando la realtà con uno stile inedito per il mondo rap, più vicino al cantautorato moderno. Non è un caso infatti che il suo target – Spotify e Instagram alla mano – non sia quello degli adolescenti ma degli over 24. Un fenomeno che si è imposto dopo la gavetta, un duro lavoro con il suo team e la discografica che l’ha sempre supportato. Ernia si è sempre rimboccato le maniche ha fatto tanti lavori (“sono stato solo due settimane disoccupato”) e ha pure tentato nel 2012 la carta di “Amici” e con lui c’era un’altra star, Ghali. A FQMagazine l’artista si è raccontato senza nessun tabù come la sua travagliata adolescenza, la raffigurazione della donna nelle canzoni rap, il valore dei soldi, i cantanti che escono dai talent e del perché “no, ma proprio no” al Festival di Sanremo 2021.
Samuele Bersani dice che in mezzo a tanti “Despacito” e reggaeton la gente ha voglia di ascoltare le storie nelle canzoni. È questo il motivo per cui “Superclassico” è piaciuto questa estate?
Esattamente. ‘Superclassico’ ha funzionato perché si è distinto nel contenitore dell’estate che sembrava un villaggio turistico. Devo essere sincero: non me lo aspettavo. Sapevo che ‘Superclassico’ era un pezzo di punta, un singolo che poteva far bene ma non pensavo così tanto… Le mie canzoni in genere vengono apprezzate dopo un po’ di tempo, stavolta è andata diversamente.
Cosa è piaciuto?
È una canzone d’amore che si sviluppa e poi esplode. Le persone si sono riviste in questa storia. Si va un po’ al di là della canzone d’amore pop con il ‘mi piaci’, ‘ti amo’, ‘mi ami’. Qui parliamo di un sentimento che invece rimane sospeso.
Nel disco parli di momenti bui e di apatia, dalla quale ti sei salvato. Come mai?
È una questione generazionale. È la crisi dei 25enni (anche se per l’esattezza ne ho 26) che si chiede ‘cosa faccio dopo?’. C’è una paura diffusa del futuro che verrà. Ci sono ragazzi che hanno problemi a staccarsi dal nucleo familiare e non solo per questioni economiche. Ci sono persone che davvero non sanno cosa fare e si appiattiscono nel nome della crisi. Io sento parlare ovunque di crisi da quando avevo 15 anni. Il mondo del lavoro precario, il futuro che sarà tutt’altro che roseo e diverso rispetto a quello che hanno avuto i nostri genitori. Quindi cosa succede? In molti si bruciano tutte le ‘prime volte’ della vita, senza godersele appieno e quando gli eventi della vita si ‘normalizzano’, ecco che arriva l’apatia e ci si appiattisce.
Però sei sempre stato in movimento, prima hai vissuto a Londra poi in Francia, come andava lì?
Mi sono sempre rimboccato le maniche. I miei genitori sono stati molto severi in questo. Mi hanno sempre detto: o studi o lavori. In tutti questi anni sono stato ‘disoccupato’ solo due settimane, poi ho fatto di tutto.
In “Vivo” canti “gli amici duri cresciuti di forza ma che son dolci se levi la scorza”. Sei così anche tu?
In verità volevo sdrammatizzare l’immagine del rapper, dell’amico duro che ‘fa brutto’ per forza ed è un mezzo criminale. Ma noi alla fine siamo persone normali. Quando ti ritrovi nel nostro ambiente, vedi il lato umano.
Sempre sul tema dell’amicizia, in “Pensavo di ucciderti” c’è la rottura con un amico dopo che ci ha provato con una tua ex…
Io sono rancoroso e basta poco perché mi infiammi! Mi lego al dito qualsiasi cosa andata storta. Non lascio facilmente correre.
Sei migliorato oggi?
Ci sto lavorando. Penso di essere meno rigido rispetto a qualche anno fa.
Che adolescente sei stato?
In genere si dice che se siamo quello che siamo diventati, è anche grazie agli errori del passato. Ma se andiamo oltre a questa visione, considerando la mia adolescenza come un segmento a sé della mia vita, cancellerei tutto. Parlo dei pensieri, dei valori che non si condividono pienamente perché ti vengono appioppati addosso, dello stare in piazza in mezzo a maschi con gli ormoni a mille, il parlare sempre con ‘l’infame’ in bocca e tutte le cagate che si dicono da ragazzini perché non hai esperienza, soldi e possibilità.
Sei una persona diversa oggi?
Molto. Oggi sono molto più sereno e nel disco ‘Gemelli’ si sente.
Perché nelle tue canzoni non parli mai dei soldi, come invece fanno tanti tuoi colleghi?
Si vede che abbiamo due pesi e due misure diversi. Ho una diversa percezione dei soldi: se guadagni mille euro e compri il collanone non vuol dire nulla, non li hai i soldi. Non sarà nemmeno avere un capo di Gucci né di Prada a darti uno status. Secondo me bisogna andare oltre l’immagine e il mostrarsi swag (figo, ndr) a tutti i costi.
Porti alla tua collana un crocefisso, sei credente?
Sono agnostico, non credo ma sono molto attratto dal simbolismo. Questo crocefisso l’ho comprato io e penso sia un simbolo importante legato alla storia dell’umanità.
Come mai in “Mery x Sempre” hai inserito la voce di un minorenne rinchiuso al Beccaria di Milano?
Mi avevano proposto delle attività da svolgere dentro il penitenziario minorile di Milano e ho accettato. Ho conosciuto questo 15enne che è stato il primo minorenne in Italia ad essere condannato per torture. Volevo sensibilizzare sul tema del bullismo. Un problema che è sempre esistito, sin da quando ero ragazzino e se oggi se ne parla di più è solo grazie alla cassa di risonanza che hanno i social.
La potenza dei social può essere un’arma a doppio taglio?
Sì. Ad esempio, io ho vissuto molto Milano e rispetto a solo quindici anni fa è migliorata. Invece, se parli con alcune persone. ti accorgi che c’è una percezione amplificata della realtà e Milano dai racconti di molti, che spesso si informano solo sui social, sembra sia una città apocalittica con rapine, furti e droga ovunque. Ma le cose non stanno così.
I ragazzini di oggi come ti sembrano?
Molto diversi dalla mia generazione. Ma lo vedi anche dalla musica, quando avevo 15 anni c’erano un sacco di sottocategorie musicali dal pop al rock, passando per il metal, c’era la moda, i tanti locali e i negozi di qualsiasi genere. Oggi è tutto omologato. Tutto uguale in Italia così come in Francia, Germania e Gran Bretagna. Questi ragazzini sono con la testa chinata sul cellulare, hanno gli stessi modelli di riferimento e governati dalla legge dell’algoritmo. Se faccio tanti like l’algoritmo mi suggerisce le stesse cose e anche se una intelligenza artificiale non mi conosce mi propone cose simili tra loro. Appena c’è qualcosa di vagamente diverso diventa subito ‘il fenomeno’ del momento e quindi esplode.
Che rapporto hai con i social?
Non uso Instagram per filmare il culo alla ballerina, non mi interessa. Di base comunico poco sul web a differenza di alcuni miei colleghi. Lo faccio solo per presentare i miei progetti, altre volte entro in contatto con la fanbase con qualche domanda e risposta su Instagram. Secondo gli indicatori dei miei social la fascia teen Under 18 è solo il terzo segmento che mi segue, i primi due sono le fasce 18-24 e 24-35. Quindi il mio pubblico è adulto. Su Spotify vale lo stesso: i miei streaming provengono dalla versione Premium in abbonamento, quindi dal professionista allo studente universitario che pagano un mensile.
Le poche volte che compari su Twitter hai le idee chiare, come ad esempio la difesa del diritto all’aborto, cosa ti ha colpito di quel dibattito?
Ho scritto ‘è curioso vedere come gli stessi che condannano l’aborto come omicidio siano gli stessi che, secondo quello che scrivono su Twitter, lascerebbero morire in mare quattro disgraziati già nati da un pezzo’. Tutto verissimo, mi ha colpito molto l’intreccio di questi elementi in contrasto tra loro. Gente che crede in una cosa e poi si contraddice, appoggiando un’altra cosa completamente diversa e opposta.
È la strategia della diffusione della paura?
Esattamente.
“Non me ne frega un cazzo”, in duetto con Fabri Fibra, nasce dopo un viaggio in America, cosa ti è piaciuto?Sono stato a Los Angeles e New York. Non mi è piaciuta.
Perché?
Gli americani sono un po’ arroganti.
Le donne spesso nelle canzoni rap sono raffigurate in modo sessista. Non credi che nel 2020 abbia un po’ stufato questa narrazione?
Questa è la visione pop della donna. Sembra sempre che sia colpa dei rapper ma nei bar davvero si fanno discorsi spinti, per strada c’è ancora gente che fischia quando passa una ragazza. Non stiamo facendo la pubblicità al ministero ma parliamo di creazioni artistiche. L’arte di qualsiasi tipo è lo specchio della realtà, non il contrario. Si dice sempre ‘ah ma questi rapper insegnano i figli a drogarsi!’ ma non è mica colpa dei rapper se succede questo. Sappiamo benissimo che questi fenomeni sono legati profondamente all’educazione e alla società. Quando parliamo di alcune canzoni, queste sono solo rappresentazione del reale, il rapper lo descrive. Poi per quello che mi riguarda questo non è il mio linguaggio.
Nel 2012 ti sei presentato ad Amici, com’è andata?
Ci siamo presentati con i Troupe D’Elite assieme a Ghali, Maite e Fonzi Beat. Una esperienza un po’ forzata. Con questa band siamo stati in attività per 4 anni e non abbiamo avuto alcun tipo di successo (ride; ndr), siamo pure stati massacrati dalla critica. Siamo andati ad ‘Amici’ quando noi rapper eravamo visti ancora malissimo nell’ambiente, ci abbiamo provato ma meglio che non siamo stati presi.
Come mai?
Chi vince un talent esce, fa un sacco di Instore e ottiene pure il triplo disco di platino. L’anno successivo arriva un altro vincitore e si rischia di finire nel dimenticatoio.
Le discografiche sono corresponsabili?
Non credo. Le discografiche oggi sono molto più coinvolte nei progetti. Le persone che lavorano con me e l’A&R della mia discografica mi sono stati sempre vicini, anche umanamente. Le decisioni alla fine sono dell’artista, se si hanno i mezzi: dalle scelte stilistiche, di immagine a quelle musicali, è questione di testa. Se oggi dovessi uscire da ‘Amici’, ad esempio, non saprei come fare perché grazie a quel programma ottieni una esposizione incredibile e tutti ti conoscono. La gente non si affeziona a te e al tuo progetto ma a te in quanto ‘fenomeno’ del momento perché ti ha visto crescere dentro il programma e perché da sconosciuto sei diventato popolare. Una star in mezzo a un sacco di promozione, in giro per i festival e ospite in tv, poi arriva un altro e la gente ti molla. La verità è che ‘chi la dura la vince’ vale sia nella musica come nell’arte in generale.
Ti piacerebbe andare a Sanremo?
Non mi piace ricevere quel tipo di attenzione. Non è il mio pubblico e anche se vincessi non mi vorrebbero bene veramente. Il pubblico di Sanremo non mi capirebbe.
Ma un palco come quello non ti consentirebbe di essere conosciuto a molte più persone?
Non parliamo la stessa lingua, ci sarebbe gente che non vedrebbe l’ora di saltarmi alla gola proprio in quanto rapper. Rappresento la nuova generazione che sta sul culo. Preferisco mille volte stare con il mio pubblico, almeno so che mi vuole bene.
Perché lo pensi?
La vecchia generazione sta capendo che sta iniziando a uscire dei giochi e quindi gli sta sul culo che qualcuno stia subentrando a loro con nuovi mezzi di comunicazione. Se leggi i commenti anche sui social c’è sempre chi ti dice ‘ma come cazzo sei vestito’ e altre cose simili. Guardate cosa è successo a quel povero Junior Cally che è stato distrutto. Il più furbo, e lo dico positivamente, invece è stato Achille Lauro che si è trasformato sul palco per dire ‘ecco così almeno scrivete e parlate di me’.
Non vuoi andare al Festival ma sembri molto bene informato!
(Ride, ndr) Ma quest’anno Sanremo è stato pazzesco succedeva qualsiasi cosa ogni sera dal duetto di Elettra Lamborghini con Myss Ketha a Achille Lauro in versione Regina Elisabetta. Bellissimo.