Introdurre il tema dello sviluppo sostenibile nella Costituzione italiana, come proposto dal premier Conte, non basta. In un mondo profondamente instabile occorrono strumenti giuridici nuovi e più radicali. Lo sostiene il costituzionalista Michele Carducci, Professore ordinario di Diritto costituzionale comparato e climatico e coordinatore del primo progetto europeo di introduzione di una “Carta europea dei diritti della natura”. Intervistato dal fattoquotidiano.it Carducci sostiene che per tutelare davvero l’ambiente, la Costituzione dovrebbe garantire la stabilità climatica, il diritto a un ambiente e clima sicuri, infine i diritti delle generazioni future e quelli della natura.
Partiamo dalle parole di Conte, che ha proposto una riforma costituzionale per valorizzare la tutela dell’ambiente e l’inserimento di un riferimento allo sviluppo sostenibile in costituzione. Questa misura potrebbe essere utile, fosse anche a livello simbolico (un po’ come è stato in altra epoca il pareggio di bilancio)?
Conviene fare due premesse. Lo sviluppo sostenibile è già inserito in norme giuridiche italiane, in particolare nel Codice dell’ambiente e in disposizioni internazionali che operano attraverso l’art. 117 comma 1 della Costituzione. In secondo luogo, lo sviluppo sostenibile non è paragonabile al “pareggio di bilancio”, in quanto quest’ultimo consiste in una prescrizione concreta e vincolante, mentre il primo esprime un concetto indeterminato non immediatamente traducibile in comportamenti concreti. L’inserimento in Costituzione, pertanto, può solo servire a promuoverlo come principio costituzionale cui orientare tutta la legislazione italiana, non solo ambientale.
Secondo lei in che modo, allora, la nostra Carta potrebbe essere riformabile per andare nella direzione indicata? Ad esempio, un superamento della divisione delle competenze tra stato e regioni? Esiste un vuoto giuridico nella nostra Costituzione rispetto all’ambiente e alla crisi ecologica?Le questioni ambientali sono questioni sistemiche e planetarie, che richiedono approcci sistemici, unitari e convergenti. Tutto il diritto costituzionale è fondamentalmente inadeguato a questa sfida. A livello internazionale è stata promossa l’iniziativa Earth System Governance Project che coinvolge giuristi e politologi nel discutere nuove prospettive di risposta all’emergenza planetaria, sia ecosistemica che climatica. Il mondo è entrato in una fase di instabilità del tutto inedita, che non può essere gestita con strumenti giuridici pensati per un contesto naturale di equilibrio ormai perso. Non a caso, molti sostengono che non si debba parlare neppure di sviluppo “sostenibile” (formula vecchia di cinquant’anni), ma di sviluppo “sicuro”.
Lei sostiene che anche in paesi dove ci sono costituzioni “verdissime” l’ambiente può venire comunque calpestato. Può farci qualche esempio e spiegarci perché?
Si pensi all’art. 225 della Costituzione del Brasile. Esso non impedisce a Bolsonaro di predare l’Amazzonia o il Pantanal a danno dell’intero pianeta e dell’intera umanità. Secondo l’iniziativa globale “One Planet One Right” bisognerebbe affermare il diritto umano non solo a un ambiente “salubre”, ma anche a un “pianeta sano”, in modo tale che la tutela dell’ambiente diventi una questione dell’intera umanità e non di singoli interessi. La Costituzione servirebbe realmente a questo scopo umanitario, se contemplasse un dovere e tre diritti.
Quali?
Il “dovere di garantire la stabilità climatica” (l’Italia, infatti, è un hot-spot climatico altamente vulnerabile); il diritto fondamentale all’ambiente salubre e al clima sicuro; i diritti delle generazioni future; i diritti della natura. La sola formula dello sviluppo sostenibile non realizza questi obiettivi di tutela effettiva, tant’è che, a livello Ue, si sta discutendo della introduzione di una Carta dei diritti della natura e del clima.
Cosa invece, a suo parere, si potrebbe introdurre a livello legislativo e oltre la Costituzione?
Posso rispondere con quanto emerge dal dibattito mondiale di ecologia giuridica sui “nuovi mandati” del potere: si deve limitare il potere discrezionale della politica nell’uso delle risorse e dei servizi ecosistemici, imponendo il cosiddetto “mandato ecologico” (la natura non può essere oggetto di discrezionale sfruttamento per interessi solo umani ed economici); la politica deve tener conto alle acquisizioni della scienza (come del resto si è riscontrato per l’emergenza Covid) e imporre alla legge e agli atti dei poteri pubblici la prova (attraverso motivazione verificabile pubblicamente) che le decisioni prese servano alla stabilità climatica che garantisce la vita sul pianeta (il cosiddetto “mandato climatico” con la. “riserva di scienza” nella motivazione degli atti); c) bisogna introdurre la regola della non regressione ambientale (i livelli di tutela non possono mai peggiorare, ma solo migliorare); bisogna introdurre i diritti della natura (gli esseri viventi che hanno diritto a sopravvivere sono tutti, non solo gli umani) e del clima (senza stabilità climatica nessuna forma di vita è concretamente garantita). Oggi, tutto questo non esiste e non è certo il paradigma dello “sviluppo sostenibile” a favorire queste prospettive.
Esiste consapevolezza di queste nuove prospettive nella cultura politica e giuridica italiana?
Come è stato scritto, giuristi e politici conoscono il diritto ambientale come norme, ma per molti di loro i meccanismi reali di funzionamento degli ecosistemi e del clima rimangono un “oggetto non identificato”, con l’effetto paradossale di parlare, decidere e interpretare ignorando la realtà naturale.