Dieci tappe, 2984 km e un premio minimo di 180 lire per tutti quelli che raggiungono Milano. Nel 1919 il Giro d’Italia, nato dieci anni prima, è solo alla sua settima edizione. La Grande Guerra si è portata via quattro anni di corse e tanti ciclisti. Come il vincitore del 1913 Carlo Oriani, morto nel 1917 durante la ritirata di Caporetto. L’Italia è un paese vincitore ma la sua quotidianità è scossa dai primi scontri tra fascisti e socialisti. Le strade per lunghi tratti non sono percorribili, i servizi essenziali carenti, il Friuli e il Veneto hanno intere zone rase al suolo dal conflitto. E poi c’è stata l’Influenza Spagnola, la pandemia sviluppatasi sopratutto nelle trincee e causa di centinaia di migliaia di morti solo in Italia. E poi, in mezzo a tutto questo, c’è Costante Girardengo.
Quarto di sette figli e basso di statura (era soprannominato “omin”), Girardengo nel 1919 ha 26 anni (nato a Novi Ligure il 18 marzo 1893), corre da sette e in bacheca ha già una Milano-Sanremo vinta l’anno prima, due campionati italiani e due tappe al Giro. Tra queste la Lucca-Roma del 1914: 430 km. Ancora oggi è la tappa più lunga della storia. Non ha partecipato alla Prima Guerra Mondiale eppure anche lui viene colpito dalla Spagnola. Tra grandi sofferenze riesce a riprendersi in tempo per prendere parte al Giro. “Ho rischiato di morire”, racconterà anni dopo.
Girardengo, su dieci arrivi, taglia per primo il traguardo in sette occasioni. Rimane in testa alla classifica dall’inizio alla fine (impresa ancora oggi ineguagliata). Entra per primo sia a Trento che a Trieste e diventa un simbolo patriottico. Quelle sono le città irredenti strappate all’Impero Austro-Ungarico. Nella città giuliana viene accolto come un monarca in un tripudio di bandiere tricolore. Nessuno riesce ad impensierirlo. Il suo amico Belloni arriva a Milano con circa cinquanta minuti di ritardo. All’improvviso Novi Ligure non è più una piccola città tra il Piemonte e la Liguria, ma il centro sportivo dell’intera penisola. La sua fama è così grande che il direttore della Gazzetta dello Sport Emilio Colombo conia il termine di “Campionissimo”.
Dopo il 1919 vince un altro Giro d’Italia, cinque Milano-Sanremo (nella speciale classifica meglio di lui solo Eddy Merckx) e sette campionati italiani, portando il totale a nove (ancora oggi un record). Rimane l’uomo da battere fino al 1925, quando un 23enne varesotto di Cittiglio lo supera al Giro. È Alfredo Binda. È il segnale che la sua epoca è ormai prossima alla conclusione.
“Vai Girardengo, vai grande campione. Nessuno ti segue su quello stradone”, canta Francesco De Gregori nel 1993 commemorando la sua grandezza e la sua nota amicizia con il fuorilegge Sante Pollastri nella canzone Il Bandito e il Campione. Una ballata figlia sopratutto di quel 1919, l’anno che lo stesso Girardengo ha definito come “il migliore della mia carriera”. Vincendo prima la malattia e poi il Giro della rinascita, Girardengo è divenuto un simbolo per tutto il ciclismo. Uno sport che oggi prova a resistere alla pandemia di coronavirus. Così come allora si era opposto alla Spagnola.