Fadìla ha 32 anni. Nel campo rom c’è nata e lì sono nati anche i suoi genitori. Ieri ha ricevuto le chiavi della nuova casa popolare. Negli ultimi due anni tanti suoi parenti sono passati dal campo alla casa popolare. E sono felici. Anche Fadìla, ieri era felice. Adesso invece è in preda a una crisi di panico e alla fine ha deciso: getterà quelle chiavi nella spazzatura perché il campo non è solo la sua casa, la sua vita, la sua protezione, la sua maledizione, il suo cibo, il suo amore, il suo destino. È anche la sua catena.
È la vicenda di Fadìla a metterci davanti il combattimento di numerose famiglie che per anni hanno abitato le baraccopoli rom nel passare ad una casa. Se oggi Ervin Goffman fosse ancora vivo ed abitasse a Roma, avrebbe probabilmente incluso tra le “istituzioni totali” anche i “villaggi” della periferia romana. Settant’anni fa, quando scrisse Asylum, classificò come tali le prigioni, i manicomi, i sanatori, gli istituti per gli anziani e le caserme.
Spazi di confinamento dalle caratteristiche comuni: impedimento allo scambio sociale, rapporti conflittuali con lo staff, processi di mortificazione del sé, desiderio di ottenere piccoli privilegi dall’istituzione, difficoltà a reintegrarsi nella società una volta usciti dall’istituzione stessa. Spazi nei quali le istituzioni “forzano alcune persone a diventare diverse”.
In Italia quando si parla di “istituzioni totali” il pensiero corre a Franco Basaglia e al suo lavoro nel manicomio di Gorizia. “Quando entrai per la prima volta sentii una strana sensazione – scrisse il medico veneziano – Non vi era l’odore di merda, ma vi era un odore simbolico di merda. Mi trovai con in mano l’intenzione ferma di distruggere quella istituzione”.
A Roma nel 1994, quando il sindaco Rutelli realizzò il campo rom di via Salviati, si inaugurò l’istituzionalizzazione di un abitare etnico riservato a persone rom che varcando il cancello dell’insediamento, da quel giorno, consegnarono la loro vita nelle mani delle autorità che quella istituzione gestivano. Da quel momento per molte famiglie rom sarebbero state le autorità a decidere dove e come avrebbero abitato. E loro, le autorità, decisero dal 1994 che il posto ideale è il “ghetto della transitorietà” dove ogni esistenza è tenuta sotto controllo e dove tutto diventa precario, a partire dall’autorizzazione a vivere dentro un container.
È sufficiente, in un esercizio mentale, sostituire la parola di Goffman “internato” con quella della giunta Rutelli “abitante del campo” per evidenziare la potenza dell’esclusione sociale di un insediamento formale. Anche i rom collocati negli insediamenti monoetnici romani sono oggetto di una violenza originaria da parte del sistema sociale, esclusi dalla produzione, ai margini della vita associata e spinti in uno spazio recintato. È l’amministratore di turno, attraverso le Forze dell’Ordine a vigilare gli ingressi.
Il manicomio di Basaglia è stato per alcuni versi un parcheggio sociale giustificato dalle gabbie “scientifiche” della malattia mentale. Che cos’altro è un “campo rom” della periferia romana se non un “parcheggio sociale” dove racchiudere, sopra un parcheggio o a ridosso di una discarica, una comunità definita come diversa sotto il profilo etnico?
Il cancello, la video sorveglianza, i militari a presidio campi rom vengono prima di tutto introiettati dagli abitanti, come Fadìla, che in ogni momento della loro vita devono ricordare di appartenere ad una categoria umana “diversa” che li rende unici destinatari di una soluzione abitativa esclusivamente rivolta a loro.
“Il ‘campo rom’ – si legge nell’ultima ricerca di Associazione 21 luglio dal titolo Asyslum – è diventato quindi a Roma un monito politico, uno stigma sociale, una condanna morale: è lo spazio dove è “giusto che abitino i rom”, nell’immaginario collettivo così come agli occhi degli amministratori locali che negli anni hanno investito su questa soluzione”.
Il “campo rom” della periferia romano, sarà la domanda che ritorna nel report, può essere considerato una sorta di istituzione totale? Sì, e questo ci porta a concludere che da una parte il “campo rom” è una fabbrica del malessere che produce esclusione sociale, segregazione, sofferenza sul corpo e sulla mente; dall’altra che non sempre è sufficiente, nel lavoro del superamento del “campo”, predisporre specifici aiuti per il sostegno all’abitare e al lavoro.
Sono da prevedere una seria attività di accompagnamento attivando specifici processi di de-istituzionalizzazione. Un elemento nuovo, mai sino ad ora considerato. “Perché il campo – spiega Fadìla – te lo porti dentro. Dovunque tu sia. In una casa o sotto un cavalcavia”.