Riad Avlar ha 46 anni, è turco e fa l’attore, ma metà della sua vita l’ha passata nell’inferno delle carceri della Siria di Assad. Catturato quando era solo uno studente di 22 anni con una fumosa accusa di spionaggio, ha trascorso buona parte degli anni di detenzione a Saydnaya, una prigione siriana che Amnesty International ha definito una “macelleria umana”. Era lì nel 2008, quando una rivolta dei detenuti fu soffocata nel sangue. Oggi la sua storia e altre simili prendono forma nella pièce teatrale Y-Saydnaya, che ha debuttato nell’ambito del Napoli Teatro Festival il 22 e 23 settembre, per la regia di Ramzi Choukair. Riad, che porta sul corpo i segni delle torture subite, ha raccontato la sua storia a Ilfattoquotidiano.it.
Chi era Riad prima della prigione e chi è diventato dopo?
Quando sono stato catturato ero un ragazzino che muoveva i primi passi nella vita. Quando son finito lì dentro ho imparato cos’è davvero, la vita. Quando sono uscito ho capito la differenza tra la bellezza della libertà e l’oppressione della prigionia.
Cosa ricordi della rivolta del 2008?
Un gruppo di detenuti ha preso il controllo di un braccio della prigione. La polizia carceraria e poi l’esercito ci hanno assediati. Abbiamo passato cinque mesi senza elettricità e senza servizi igienici. Facevamo i bisogni dappertutto.
C’è stato un momento di speranza durante la tua vita in carcere?
La visita di mio fratello è stato il primo momento in cui mi sono sentito meglio dopo 15 anni di prigionia. Era la prima volta che vedevo un mio familiare. Ero traumatizzato, come chiunque finisca in prigione in quel modo. Ricordavo un bambino che lanciavamo in aria per farlo ridere, mi ritrovai davanti un uomo coi baffi. Fino ad allora non sapevo nulla. Anche l’accusa nei miei confronti, il motivo per cui ero lì dentro, non mi erano chiari. Non sapevo niente del mondo esterno, di quello che succedeva a mia madre.
Non sapevi di cosa eri accusato?
Per i primi 17 anni di prigionia non ho saputo perché mi trovavo lì. Pensavo fosse solo perché avevo relazioni con la Turchia. Quando nel 2011 scoppiò la rivoluzione in Siria, nella prigione di Saydnaya fu stabilita una corte marziale e il mio dossier fu spostato da un tribunale all’altro. Solo in quel momento seppi di cosa ero accusato ufficialmente.
Come avvenne il tuo arresto?
Tredici persone furono prese e sbattute in prigione solo perché turche. Era il periodo in cui a Damasco aveva trovato asilo Abdullah Öcalan (leader curdo del Pkk, considerato un gruppo terroristico da Ankara, ndr). Bastava essere turchi per essere sospettati di spionaggio.
Sei stato detenuto solo a Saydnaya?
Sono stato prima nella prigione dei servizi di intelligence per dieci anni. Poi fui trasferito a Saydnaya e dopo diversi anni alla prigione centrale di Adra, a Damasco. Un complesso che ospitava 15 mila persone. Dopo lo scoppio della rivoluzione, periodo 2011-2012, c’erano celle con 110 persone in uno spazio destinato a 10. Avevamo due coperte e 75 centimetri di spazio a testa. Dal modo in cui torturavano i nuovi arrivati si capiva benissimo che là fuori stava succedendo qualcosa.
Com’era la “giornata tipo” in prigione?
Qualche volta ci permettevano di leggere libri, ma la maggior parte del tempo si passava nel nulla tra un interrogatorio e l’altro. I primi mesi di prigionia li ho passati al buio, in un buco. Ho imparato a distinguere tonalità di nero che prima non credevo neanche esistessero. Non avevo idea di che aspetto avesse la mia faccia. Contavo i giorni con i ritmi dei miei aguzzini: dopo che mi interrogavano e torturavano mi riportavano in cella e mi davano da mangiare. Solo così capivo che era ora di pranzo. Dopo un po’ smisi di tenere il conto e di voler sapere se era giorno o notte. All’inizio uccidevo formiche e scarafaggi che mi camminavano addosso, ma alla fine siamo diventati amici.
Come si svolgevano gli interrogatori?
Questi (indica tre cicatrici sull’avambraccio sinistro, ndr) sono i segni delle torture che subivo ogni volta. Mi colpivano con oggetti duri, pungoli, mi picchiavano per farmi confessare quello che volevano sentirsi dire. La tortura peggiore era quando non mi lasciavano dormire e mi portavano in uno stanzino legandomi mani e piedi passandomi una corda intorno al collo. Era terribile.
Una voce risuona dal palcoscenico: chiama Riad. “Khamsa Da’ai”, risponde lui: cinque minuti. È il momento di andare in scena, lo spettacolo deve cominciare. “Y-Saydnaya” è un florilegio di storie di tanti altri Riad. Parla di Rami, finito in carcere per aver raccontato una barzelletta sull’accento del presidente Assad mentre prestava il servizio militare e che oggi lotta con una sindrome schizofrenica dovuta al trauma della prigionia. Ma l’opera racconta anche la storia di Renè-Shevan:,omosessuale figlio di un cristiano e di un’ebrea, finito nelle spire del sistema detentivo siriano dove viene violato, percosso e umiliato. E anche di Hend, comunista finita in carcere negli anni ottanta solo per aver distribuito dei volantini.