Ambizioso, complesso e internamente articolato, il disco fu il primo della band a raggiungere la posizione numero uno delle classifiche inglesi. Era il 1970 e la copertina con la mucca sconvolse ogni regola del marketing applicato alla musica
È il 1970, è l’alba della più entusiasmante, avanguardista e splendente decade nella storia della rock music: l’art rock, il movimento all’interno del quale fioriranno il rock psichedelico, quello progressivo e l’hard rock, con dischi come In the Court of the Crimson King (1969) dei King Crimson, ha già mosso i suoi primi, imperiosi passi, e un sempre crescente numero di band britanniche, tedesche e italiane sembra voler superare ogni limite imposto dallo schema della forma-canzone tradizionale. È in mezzo ad album come Five Bridges dei Nice, Electronic Meditation dei Tangerine Dream, Time and a Word dei Yes ed Emerson Lake and Palmer dell’omonima band di Keith Emerson, Greg Lake e Carl Palmer che i Pink Floyd, oramai orfani delle intuizioni psichedeliche del fondatore Syd Barrett, giungono a pubblicare, non senza qualche difficoltà, l’album della definitiva maturità, sia commerciale che artistica: parliamo di Atom Heart Mother, il loro quinto album in studio nonché il primo a portarli sulla vetta della classifica britannica principalmente grazie alla title track, una suite, la più lunga della loro intera produzione discografica (eccezion fatta per la successiva Shine on You Crazy Diamond, separata però tra i due lati del vinile di Wish You Were Here), divisa in sei parti e della durata di oltre 23 minuti.
Oggi, esattamente cinquant’anni dopo, sembra quasi impossibile che un disco così ambizioso, complesso e internamente articolato possa aver raggiunto la posizione numero uno delle classifiche inglesi, numero quattro di quelle francesi e numero cinque di quelle fiamminghe: merito, in buona parte, del compositore chiamato a mettere insieme, completare e rendere omogenea la lunga suite precedentemente registrata dalla band, Ron Geesin. È così che insieme alle chitarre di Gilmour, al basso di Waters, alla batteria di Mason e all’organo di Wright compaiono in Atom Heart Mother un’intera orchestra di ottoni affiancati, a loro volta, da voci soliste, coro e, infine, un violoncello, strumento al quale il compositore, già reduce da un lavoro con Waters per le musiche del documentario The Body, affida uno dei soli più significativi dell’intera suite. È così che esperienze atonali e linguaggi propri della musica d’avanguardia colta irrompono nel rock dei Pink Floyd, preannunciando, in apertura della suite e quasi fossero timide prove tecniche di trasmissione, il successivo tema principale, quella melodia dall’epico sapore western scritta da Gilmour e affidata, in sede di orchestrazione, ai corni di Geesin.
Un’operazione, quella di Atom Heart Mother, che risulta vincente, oltre che sul piano musicale, anche sotto il profilo comunicativo, coinvolgendo, per la realizzazione della copertina del vinile, Storm Thorgerson, il fotografo già autore delle cover degli album A Saucerful of Secrets (1968) e Ummagumma (1969). Il risultato è destinato a scrivere una pagina di storia: l’idea, senza precedenti, è infatti quella di eliminare dalla copertina del disco qualsiasi riferimento alla band in favore di un’insolita quanto pacifica mucca al pascolo, nulla di più alieno al mondo della musica rock, un vero e proprio cortocircuito semantico. Una strategia grafico-pubblicitaria che riesce a centrare l’obiettivo, contribuendo non poco al successo dell’album più odiato dalla stessa band: numerose infatti le postume dichiarazioni, non esattamente lusinghiere, che Roger Waters e David Gilmour riserveranno al loro primo grande successo commerciale, evidentemente distante, dato il copioso apporto esterno di Geesin, dalle loro specifiche sensibilità estetiche e musicali. Al netto però delle considerazioni degli stessi membri della band, Atom Heart Mother rappresenta senza dubbio uno dei più avanzati punti di incontro e fusione fra la musica rock e quella orchestrale, un passaggio decisivo per l’emancipazione del rock dallo status di mero genere di intrattenimento e promozione al rango di vera e propria forma d’arte: la lunghezza dei brani si amplia notevolmente, l’organico strumentale si arricchisce oltremodo, la musica barocca cede in prestito forme come la suite e tecniche compositive come il contrappunto. Atom Heart Mother queste caratteristiche le possiede tutte, ne fa sfoggio e motivo di orgoglio, ragion per cui oggi, esattamente cinquant’anni dopo, suona ancora come fosse attuale.