Per una volta non entrerò subito in classe. Aspetterò sulla porta che la collega che ha finito la sua lezione esca. A quel punto, rimanendo sulla soglia della porta, inizierò, con un tono un po’ più alto del consueto. “Ma perch’io non proceda troppo chiuso, Francesco e Poverta per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso”.
Tra le facce un po’ sorprese di Alessandro e Fabiana, di Marco e Rachele e di tutti gli altri, sarei entrato. Guardandoli, continuerò, “La loro concordia e il loro aspetto lieto, l’amore e l’ammirazione e la dolce contemplazione producevano santi pensieri … O ricchezza sconosciuta! O bene fecondo! Si scalza Egidio, si scalza Silvestro (seguaci di Francesco, nda) dietro allo sposo, tanto la sposa piace”.
Nel silenzio che l’attesa di sapere provoca spiegherò che quei versi sono nella Divina Commedia di Dante. Nel canto XI del Paradiso. Dirò che il Francesco del quale si parla è il Santo patrono d’Italia. Insomma una celebrità, forse un po’ dimenticata. E non solo per colpa del Covid. Eppure proprio in quest’occasione, ancora più che negli scorsi anni, ce ne dovremmo ricordare.
Perché Francesco ad un certo punto della sua vita ha scelto di cambiare. Radicalmente. Abbandonando quel che aveva. Un po’ quello che la pandemia prima ci ha costretto a fare e poi ci continua a suggerire. Rinunciare a molte delle nostre abitudini. Fare a meno di almeno qualcuna delle nostre improcrastinabili necessità. Non solo per sopravvivere. Ma per vivere meglio. Pienamente.
Francesco è stato un uomo responsabile. Con “una regola severa”, dice Dante ancora nel canto XI. Perché gli uomini devono, almeno in alcune occasioni, prendere decisioni nette. Anche se dolorose. Difficili da accettare, alle volte.
“Professore, parliamo di Francesco d’Assisi oppure del Covid?”, è più che probabile chiederà qualcuno. Che proverò a rassicurare, spiegando che era mia intenzione di parlare di entrambi. Anzi di servirmi di Francesco per provare a far capire che si può rinunciare anche a tutto quel che abbiamo pensato fosse necessario. Dobbiamo farlo noi, per primi, dando l’esempio. Sapendo che non serve privarci di tutto. Nessuno ci chiede di essere coraggiosi come Francesco.
A questo punto cercherò di guardarli negli occhi, uno ad uno. Provando a percepire quel che pensano. Quindi, prenderò il mio Argan. Le prime pagine del secondo volume de La storia dell’arte italiana, dove ci sono alcune delle immagini de le Storie di san Francesco, dipinte da Giotto lungo le pareti della navata della basilica superiore di Assisi.
Indicherò l’episodio della “Rinuncia ai beni terreni”. “Guardate, ragazzi, la reazione del padre di Francesco nel momento in cui il figlio rifiuta le ricchezze di famiglia e sceglie una vita di povertà. L’uomo è dipinto nell’atto di protendersi verso il figlio, ma è trattenuto da uno dei presenti, che lo afferra per un braccio”.
A questo punto rimarrò in silenzio, in attesa di una qualche reazione. Che ci sarà, ne sono certo. Qualcuno mi chiederà di Giotto, forse. Qualcun altro del Cantico, credo. Curiosità, legittime. Ma tra una domanda e l’altra ci sarà spazio per una riflessione su di loro. Su come loro, i ragazzi, possono dimostrare agli adulti che si può cambiare. Si può fare a meno di molto di più di quanto s’immagini.
Celebrare San Francesco sarà l’occasione per studiare la sua vita e la sua lauda. Per parlare di Giotto, naturalmente. Perché la letteratura italiana prende forma soltanto se la si innerva, non solo con la storia e la geografia ma anche con la storia dell’arte. Tanto più in tempi nei quali i ragazzi trascorrono la loro mattinata a scuola, sempre con la mascherina e con pochissime possibilità di spostarsi dai banchi.
Parlare della festa di Francesco sarà un’occasione. Per far respirare almeno i pensieri. In un anno difficile.