Nella prima decade di ottobre cadono parecchi anniversari di disastri alluvionali: da quello calabrese del 1951 – con 70 vittime, 4.500 senzatetto, quasi 1.700 abitazioni crollate o rese inabitabili, 67 comuni colpiti – alla tragedia del Vajont del 1963, con più di 2.000 vittime. Ma in ottobre anche altri anniversari dovrebbero ammonire gli italiani a non dimenticare, se non a “prevedere e provvedere”: le parole con cui esordì sul canale nazionale della televisione pubblica il giornalista Cesare Viazzi, che trasmetteva dalla sede genovese della Rai. Era il giorno 8 ottobre del 1970.

Nei giorni 7 e 8 ottobre 1970 Genova fu devastata da una delle più severe alluvioni della sua storia, provocata dalla esondazione di vari torrenti, dal Leira all’estremo ponente fino allo Sturla a levante, passando per Chiaravagna e Polcevera. Le più gravi colpirono le popolose rive del Fereggiano e del Bisagno. Se il pluviografo di Bolzaneto – nel bacino del torrente Polcevera – registrò circa 950 millimetri di pioggia in 24 ore, record italiano tuttora imbattuto di pioggia locale, la meteora non perse troppa intensità, attraversando diagonalmente la città da sud ovest a nord est, per risalire le alture e ripiegare nuovamente verso valle, con effetti al suolo rovinosi proprio in virtù di questa dinamica atmosferica.

Per il Bisagno, il torrente più importante, non fu certo la piena più severa. Quella del 1822, descritta da Mary Shelley, e quella del 1452, narrata dal vescovo Agostino (nato Pantaleone) Giustiniani, erano state ancora più severe per intensità e durata dell’evento idrologico. Senza dubbio fu però la più distruttiva, giacché incontrò a valle un manufatto costruito a regola d’arte sotto il profilo strutturale e del tutto inadeguato sotto quello idrologico: la copertura del tratto finale del corso d’acqua. Lo stesso assetto urbano che, in scala minore, fu disastroso per il Rio Fereggiano, piccolo affluente del Bisagno.

L’opera idraulica era ed è tuttora incapace di convogliare le massime piene, le cui acque inondano perciò la città, flagellata da più di 70 anni in fervida attesa di una soluzione, tuttora in fieri. Nella prima metà del ‘900 fu a lungo discussa e finalmente realizzata – con piglio fascista, ardito e futurista – la ristretta canalizzazione e la copertura stradale del torrente.

Nella seconda metà i genovesi iniziarono ad apprezzare le conseguenze di quella impresa, con lutti e danni che hanno continuato a funestare la città nel nuovo secolo. Se in occasione delle prime esondazioni del 1951 e 1953 la politica poteva invocare la malasorte, dopo il disastro del 1970 la malasorte si tramutò in foglia di fico, sempre più minuscola dopo l’alluvione del 1992 e destinata a scomparire del tutto con gli episodi del 2011 e del 2014.

Non si può condensare in un post tutta la storia del fiume sepolto che ho raccontato in un lungo saggio (Bisagno: il fiume nascosto, Marsilio, 2017). È uno psicodramma che non smette di torturare i sogni dei genovesi, con sfaccettature spesso sorprendenti, come emerge a ogni dibattito pubblico. E che meriterebbero qualche riflessione sulla logica con cui questo paese affronta la difesa dalle alluvioni, tra proclami e invettive, emergenze e oblio, iniziative lodevoli e promesse velleitarie dall’esito incerto, soggette a priorità di bilancio, dettati infrastrutturali, urgenze edilizie e lacune della memoria.

Si sta per concludere, in pompa magna, la ricostruzione della storica copertura, che viene rifatta un po’ meglio della vecchia e migliorerà un po’ la situazione, ma secondo una continuità culturale imbarazzante: un solaio cieco con quattro canne larghe come le vecchie. E vale qui la pena di ricordare la Relazione Conclusiva della Commissione De Marchi per la Difesa del Suolo, licenziata nel 1970, dove si affermava che “non dovrebbero essere tollerati il silenzio o le spiegazioni monche, distorte o evasive, sulle difficoltà e sugli insuccessi delle opere d’ingegneria.”

I genovesi aspettano fiduciosi che venga costruito lo scolmatore, atteso da 50 anni. È una infrastruttura che, negli studi propedeutici del Piano di Bacino degli anni ‘90, avevo indicato come l’unica opera indispensabile a garantire un livello accettabile di rischio idraulico. Ora, finalmente, l’opera è stata finanziata, grazie a #Italiasicura; e i lavori sono in fase di inizio cantiere.

Malasorte è una circostanza imponderabile, terribilmente casuale, come la vicenda della moglie di Anselmo colta dall’alluvione proprio nel momento in cui va a consumare il proprio tradimento coniugale, il pomeriggio dell’8 di ottobre del 1970. Il racconto musicale di Fabrizio de Andrè, Dolcenera, ha reso immortale, assieme a questa donna, quella inondazione “nera di malasorte che ammazza e passa oltre”. Un affresco musicale di quell’evento, un po’ meno personale e leggermente tecnicistico, è presente anche in una canzone scritta qualche anno fa, con più di 70mila contatti su YouTube in versione originale: La chitarra di Bellafontana, che riproponiamo ora con qualche stonatura in meno.

La musica esprime forse meglio di qualunque frase il concetto che ho dichiarato in Bombe d’acqua (Marsilio, 2017). “Non è soltanto malasorte, invece, se pubblico e privato, governanti e governati, architetti e ingegneri non hanno selezionato in modo prudente gli obiettivi del disegno urbano e considerato con cura le alternative progettuali, né previsto gli effetti e le conseguenze dell’opera dell’uomo”.

Lorenzo Bellafontana (1906-1976) fu un liutaio genovese, allievo di maestri quali Oreste Candi e Giuseppe Lecchi. Nel 1967 subentrò a quest’ultimo nella conservazione del violino di Giuseppe Guarneri del Gesù, il Cannone, che appartenne a Niccolò Paganini. Dopo che il suo laboratorio fu sommerso dalle acque del Bisagno esondate nel 1970, assieme a molti coetanei ci ritrovammo a spalare il fango da quel luogo, in quella strada e in quel laboratorio. E la radice di una vocazione professionale per l’idraulica e l’idrologia nacque forse da lì, da una chitarra umiliata.

[Foto in evidenza: ponte distrutto dalla piena del fiume Sesia in Piemonte]

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