In un articolo pubblicato recentemente sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine, due ricercatori dell’Università della California a San Francisco fanno il punto sugli effetti dell’uso delle mascherine chirurgiche (o in realtà di qualunque tipo di mascherina, anche artigianale) e suggeriscono una ipotesi interessante: la mascherina oltre alla protezione altruistica, protegge anche il portatore riducendo la carica virale dell’eventuale contagio.
L’ipotesi è promettente, ed è importante chiarirne le premesse che sono ovvie agli epidemiologi, ma controintuitive per la popolazione in generale:
1) le malattie infettive guariscono per la risposta immunitaria innata e acquisita del malato; anche per il Covid-19 le reinfezioni sono rare e hanno gravità ridotta; le malattie infettive che danno reinfezioni multiple sono in maggioranza dovute a ceppi virali o batterici mutati nei confronti dei quali l’immunità conferita da una precedente infezione è incompleta.
2) Le epidemie finiscono quando la popolazione suscettibile diventa in maggioranza immune; l’effettiva percentuale della popolazione che deve immunizzarsi, con la malattia o col vaccino, è variabile a seconda della trasmissibilità della malattia e della presenza di una variabilità genetica nella suscettibilità della popolazione.
3) Le forme di protezione diverse dal vaccino riducono la probabilità del contagio e possono rallentare lo sviluppo dell’epidemia, ma non la interrompono.
Fino ad oggi avevamo pensato che l’uso della mascherina chirurgica avesse principalmente lo scopo di ridurre la probabilità della trasmissione della malattia (ma certamente non di impedirla del tutto). Lo studio citato, però, nel riassumere dati raccolti in vari contesti nei quali la mascherina chirurgica era usata diffusamente, suggerisce che chi si contagia mentre indossa la mascherina chirurgica abbia anche una maggiore probabilità di avere una malattia lieve o asintomatica.
I dati, seppure preliminari, sono incoraggianti: le forme asintomatiche o paucisintomatiche di Covid-19 salirebbero dal 40% se il contagio avviene in assenza di mascherina, a valori compresi tra l’80% e il 95% se il contagio avviene mentre il soggetto porta la mascherina. La mascherina eserciterebbe la sua azione riducendo la carica virale del contagio: il decorso della malattia è infatti tanto più lento e blando quanto minore è il numero di droplets contenenti particelle virali attraverso le quali il soggetto contrae la malattia. Infatti quanto più bassa è la carica virale al momento del contagio, tanto maggiore è il tempo necessario al virus per replicarsi e raggiungere la numerosità necessaria per diffondersi nell’organismo; invece la risposta immunitaria dell’ospite inizia immediatamente e richiede lo stesso tempo qualunque sia la carica virale iniziale.
Gli autori, non a caso, paragonano l’effetto della mascherina a quello della variolazione, la pratica attraverso la quale in molti paesi asiatici, in particolare in Turchia, si usava materiale estratto dalle pustole vaiolose essiccate per contagiare i bambini con una forma attenuata e a bassa carica virale di vaiolo, che li avrebbe protetti in futuro dalla malattia naturale.
L’unico strumento che effettivamente può arrestare una epidemia è il vaccino; qualunque altra azione ha effetti temporanei, o rallenta il decorso epidemico; però, se uno strumento semplice come una mascherina chirurgica ha il potere di ridurre la severità della malattia e abbassarne la letalità, questo ci consente di attendere il vaccino con maggiore serenità e soprattutto di mantenere le funzioni essenziali della società, dalla scuola ai trasporti e alle attività lavorative.
Dopo tutto la seconda ondata era prevista e attesa; limitarne la mortalità è un obiettivo non solo molto più realistico che impedirla, ma anche molto più produttivo a lungo termine, perché un grande numero di pazienti guariti costituisce un ostacolo alla circolazione virale.