Il loro ruolo, vista l'età dei candidati alla Casa Bianca, diventa potenzialmente importantissimo perché potrebbero subentrare nel caso il presidente eletto si trovasse fisicamente impedito. Pence, conservatore religioso tutto di un pezzo, in quattro anni è riuscito a non farsi fagocitare da Trump, che sarà il vero bersaglio degli attacchi di Harris per la gestione della crisi sanitaria. Ma la candidata dem non dovrà passare da inquisitrice, per non allontanare il voto afro-americano di cui la campagna di Biden ha assoluto bisogno
Saranno lontani quattro metri l’uno dall’altra e tra loro ci saranno due schermi di plexiglass. Il dibattito di stasera alla University of Utah di Salt Lake City tra i vice, Mike Pence e Kamala Harris, si svolge all’ombra dell’emergenza coronavirus che sta pesantemente segnando la vita degli Stati Uniti e il corso della politica di Washington. In un momento che ha pochi precedenti nella storia americana, i candidati alla vicepresidenza avranno parecchie cose di cui discutere: la crisi sanitaria, appunto, e poi le proteste razziali, la nomina di una giudice contestata alla Corte Suprema, il numero crescente di disoccupati. La posta in gioco è, per entrambi, altissima. Forse mai nella storia il duello tra i vice è stato così importante.
Con due candidati piuttosto in là con gli anni – Joe Biden 77 anni, Donald Trump 74, i più anziani nella storia elettorale Usa – e con un presidente alle prese con il Covid, gli elettori americani si trovano di fronte a una situazione inedita. Il ruolo del vicepresidente diventa potenzialmente importantissimo. Nel caso il presidente eletto si trovasse fisicamente impedito, saranno Pence o Harris ad assumere quel ruolo. Per questo entrambi devono dimostrare di essere qualcosa di più di una semplice appendice dei numeri uno. Devono mostrare di possedere personalità, autorevolezza, padronanza delle questioni.
Mike Pence, 61 anni, ex governatore dell’Indiana, un conservatore religioso tutto di un pezzo, è riuscito nei passati quattro anni a fare qualcosa di molto difficile. Non rompere mai con Trump, riuscendo al tempo stesso a non farsi risucchiare nel vortice di polemiche e scandali che hanno contraddistinto la presidenza più tumultuosa della storia americana. Trump lo chiamò, nel 2016, per mantenere i contatti col partito repubblicano e mostrare la sua deferenza verso i religiosi. Pence ha svolto il compito con passione e precisione. Caratterialmente, è agli antipodi del presidente. Trattenuto quanto quello è aggressivo. Rispettoso dell’avversario quanto Trump è vulcanico e pronto all’insulto. Non è però mai scialbo o arrendevole. Pence è anzi un ottimo debater. Non interrompe l’avversario, non perde la calma, riesce ad aggirare con nonchalance le domande più pericolose e riportare la conversazione sul piano che gli è più favorevole.
Probabile che stasera attacchi Harris come simbolo di un mondo radicale e progressista di San Francisco (dove la democratica ha lavorato e iniziato la sua carriera politica) lontano dalla cultura e dalle preoccupazioni dell’America più vera. Il vicepresidente non avrà comunque un compito facile. Si tratta di difendere i risultati della sua amministrazione nel momento in cui questa è segnata da una diffusa epidemia di Covid; l’ultimo a risultare positivo è uno degli uomini più vicini a Trump, Stephen Miller, l’architetto di buona parte della politica sull’immigrazione degli ultimi quattro anni. E poi ci sono gli ultimi sondaggi, particolarmente negativi per i repubblicani. Secondo un rilevamento Cnn di ieri (realizzato dopo l’annuncio della positività di Trump), Joe Biden sarebbe in vantaggio di 16 punti: 57 per cento contro 41 per Trump. Aver ulteriormente minimizzato la pandemia, averla ridotta a semplice influenza, essersi mostrato ancora una volta sprezzante di fronte a un virus che ha ucciso 210 mila americani e travolto la vita di milioni e milioni di persone non sembra, per ora, aver funzionato. Pence dovrà difendere la gestione della pandemia (è stato lui a dirigere la task-force anti-virus) e non sarà facile.
È su questo fallimento che insisterà Kamala Harris. La democratica è a Salt Lake City da giorni. È nota per essere molto accurata nella preparazione dei suoi eventi pubblici e anche in quest’occasione sta curando ogni dettaglio. Un’esperta consulente democratica, Karen Dunn, è a capo del team che l’aiuta nella gestione del dibattito. In questi giorni, a Salt Lake City, è stato visto anche Pete Buttigieg, l’ex candidato alle primarie democratiche e sindaco di South Bend, Indiana. Buttigieg conosce politicamente molto bene Pence, che era governatore dell’Indiana, e ha impersonato il vicepresidente repubblicano nelle prove con Harris (mentre la “parte” della democratica, nelle prove del dibattito di Pence, è stata interpretata da Pam Bondi, ex attorney general della Florida). Consulenti vicini alla campagna democratica hanno spiegato che stasera il vero obiettivo di Harris non sarà Pence, ma direttamente Trump. La vice di Biden, che è stata procuratrice e attorney general in California, è conosciuta per la sua capacità di torchiare in modo aggressivo testimoni e avversari. Stasera non deve esagerare. Il rischio è quello di mostrarsi più inquisitrice che attenta alle questioni politiche, allontanando soprattutto quel voto afro-americano di cui la campagna di Biden ha assoluto bisogno.
La preparazione del dibattito è stata accompagnata da molte polemiche. In diversi hanno chiesto a Harris di annullare l’appuntamento, per il rischio di contagio cui Pence è stato sottoposto. In effetti il vicepresidente, che è stato a stretto contatto con molte persone poi risultate positive, avrebbe dovuto mettersi in quarantena, secondo le disposizioni dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC). La campagna di Pence ha risposto che il vicepresidente sta benissimo e che si sottopone quotidianamente al tampone. Critiche ha anche sollevato la richiesta dei democratici di porre dei divisori in plexiglass tra i candidati. “Se la senatrice Harris vuole chiudersi in una fortezza, faccia pure”, ha commentato un portavoce di Pence. Alla fine è stato raggiunto un accordo e il dibattito ci sarà. “Il più importante nella storia dei dibattiti tra vicepresidenti”, ha scritto John Hudak della Brookings Institution. “Gli americani guarderanno allo scontro con la coscienza rinnovata che uno dei due potrebbe facilmente diventare presidente – non perché vinceranno un’elezione, ma perché succederanno al presidente”.