Susanna Petrosyan, attivista e volontaria della ong ‘Artsakh youth development center’, racconta il dramma del conflitto nella regione separatista a totale maggioranza armena. Vive a Step’anakert, dove ora sono rimasti solo gli uomini che potrebbero essere chiamati a combattere. E teme di vivere di nuovo la tragedia collettiva degli anni '90
Il conflitto in Nagorno-Karabakh tra forze azere e armene è giunto all’undicesimo giorno di combattimenti. Nelle ultime ore l’apice della violenza ha scosso la capitale dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, a totale maggioranza armena, Step’anakert (Khankendi in azero). L’artiglieria di Baku, piazzata ad una sessantina di chilometri, oltre la ‘Ghost town’ di Agdam, ha bombardato pesantemente la città e i villaggi circostanti dopo che nei giorni scorsi aveva messo nel mirino la città di Mart’akert, altro centro del Nagorno Karabakh reclamato dall’Azerbaigian. La stima delle vittime viene continuamente aggiornata, ma oltre ai militari caduti da ambo le parti, adesso cresce il numero di morti civili. Fonti di Step’anakert, riprese da Interfax, affermano che altri 40 suoi militari sono morti nei combattimenti con le forze azere portando a 280 il totale dei caduti nelle file dei miliziani della repubblica separatista. Venti invece le vittime tra i civili. Da qui la decisione presa in fretta e furia di evacuare il grosso della popolazione, almeno la metà quella in fuga dal primo giorno dei combattimenti, lo scorso 27 settembre: “Secondo le nostre stime preliminari – ha affermato Artak Beglaryan, responsabile dei diritti umani dell’Artsakh, all’agenzia France-Press – circa il 50% della popolazione del Karabakh e il 90% delle donne e dei bambini, ovvero circa 70-75mila persone, hanno dovuto lasciare le loro case”.
Mentre i razzi Smerch continuano a sibilare nei cieli del Nagorno Karabakh, le diplomazie internazionali proseguono i colloqui auspicando un cessate-il-fuoco duraturo e una ripresa del dialogo. A litigare non sono soltanto Yerevan e Baku, ma anche i loro partner strategici, a partire dalla Turchia, ben disposta a scagliarsi contro Russia e Francia. Intanto sul fronte del Caucaso, l’Armenia si è detta pronta a concessioni per risolvere il conflitto se l’Azerbaigian farà lo stesso. Rapporti internazionali e geopolitici deteriorati da una parte, l’odio interetnico e il fronte militare rovente dall’altra. In mezzo resta la popolazione inerme del Karabakh, territorio azero, ma da oltre un secolo abitato esclusivamente da armeni. Per capire cosa sta realmente accadendo a Step’anakert abbiamo contattato Susanna Petrosyan, attivista e volontaria della ong ‘Artsakh youth development center’, ma soprattutto madre, moglie e cittadina della capitale.
“Un inferno, sembrava un film dell’orrore. I boati e l’oscurità, con le luci della città tutte spente. I bombardamenti sono iniziati da qualche giorno, ma le azioni di stanotte sono state le più pesanti e hanno colpito obiettivi civili, non militari. L’attacco è durato a lungo, non la smettevano mai di cadere i razzi. Nessuno è più al sicuro”.
Scene di devastazione, è così?
“Partendo stamattina da Step’anakert ho visto, seppur parzialmente, i danni provocati dalla pioggia di razzi. Fa male al cuore vedere la città in quelle condizioni”.
Adesso dove si trova?
“Sono sulla strada di ritorno a Step’anakert. Viste come si erano messe le cose assieme a mio marito, e su consiglio delle nostre autorità, abbiamo deciso di portare in salvo i nostri figli. All’alba li ho messi in macchina e sono partita verso Yerevan (330 chilometri a nord-ovest) dove li ho lasciati al sicuro da alcuni conoscenti. Il tempo di un bacio e sono ripartita, a breve sarò di nuovo nella capitale”.
Le autorità non hanno disposto la messa in sicurezza anche delle donne, oltre ai bambini e agli anziani?
“Sì, ma io non posso stare lontana da qui, sono una volontaria e dirigo la ong, devo coordinare gli aiuti e l’assistenza, e non riesco a farlo altrove”.
Chi è rimasto a Step’anakert?
“Soltanto la parte maschile della popolazione, tutti a disposizione per combattere. Qui si nasce sapendo che un giorno il proprio aiuto, anche sotto il profilo militare, potrebbe essere richiesto, non importa quale lavoro o carriera uno ha costruito negli anni”.
Come sta vivendo questi giorni a livello emotivo?
“Con la paura di non riprendermi dopo il trauma subìto da bambina durante il conflitto originale per il Nagorno-Karabakh nei primi anni ’90. Soffrii molto all’epoca per superare quella tragedia collettiva. I ricordi delle bombe e dei morti mi hanno perseguitato sempre nel corso della vita, speravo di non riviverne più di simili”.
Quali le differenze rispetto a quasi trent’anni fa?
“Adesso è molto peggio perché oltre a me stessa devo pensare alla salvaguardia dei miei figli”.
Pensa che la comunità internazionale stia facendo bene la sua parte?
“Onestamente no, dovremmo essere protetti, non tanto contro l’Azerbaigian, quanto dalla Turchia. L’Artsakh, una popolazione di 150mila abitanti, contro il potente regime, da sola”.