Un lungo striscione si staglia di fronte all’ingresso dell’Ospedale pediatrico di Diamniadio di Dakar: la scritta in cinese e francese proclama: “La Jiangsu Construction Engineering Group Co. Ltd sostiene il Senegal nella lotta al Covid 19. Sotto, decine di scatoloni di materiale sanitario: maschere, tute, guanti chirurgici e occhiali protettivi, respiratori e altri strumenti tecnici. A presentare la donazione, un gruppo di medici e diplomatici cinesi che scatta le foto di rito con la direttrice dell’ospedale. L’immagine verrà mostrata poche ore dopo sulla pagina Facebook dell’Ambasciata Cinese in Senegal e ripresa dall’agenzia di stampa Xinhua.

Scena simile qualche mese prima all’Aeroporto Internazionale della capitale senegalese con centinaia di scatoloni scaricati da un aereo cargo accompagnati da un’equipe di medici cinesi destinata al Centre Hospitalier National de Pikine, in prima linea sullo screening e la presa in carico di casi sospetti nel Paese. Ovunque bandiere delle imprese benefattrici delle donazioni assieme all’immancabile colore rosso della diplomazia di Pechino. La generosità cinese viene orchestrata in collaborazione con le sue aziende sul posto. Un dettaglio che non sfugge all’osservatore che vede riproporsi da mesi gli stessi “teatrini” in diversi paesi del continente africano. Dal vicino Mali, dove l’opinione pubblica ha saputo dei letti donati dalla società di costruzioni China Overseas Engineering Corporation (COVEC) o del gel idroalcolico offerto dalle società cino-maliana Sukala e N-Sukala, passando per Burkina Faso, Ghana, Kenya e a ritroso fino al 20 marzo scorso in Etiopia quando i primi aiuti cinesi sul continente sono arrivati ad Addis Abeba sponsorizzati dal filantropo miliardario Jack Ma, fondatore del gigante della vendita online Alibaba.

Tutte le strategie di Pechino – Questa imponente offensiva di “soft power” dispiegata dalla Repubblica Popolare è studiata per sfruttare l’emergenza con il fine ultimo di rafforzare ulteriormente il radicamento economico-politico cinese su un territorio di cui, già da tempo, ha sconvolto le linee di forza strategiche. Nel mese di giugno a ridosso del Summit Straordinario sulla Solidarietà Africa-Cina contro il Covid-19 indetto appositamente per rafforzare la cooperazione nella lotta al virus, Pechino aveva già inviato equipe mediche a più di 50 nazioni africane, 30 milioni di test, 10mila respiratori e 80 milioni di mascherine. L’ occasione è poi servita al presidente Xi Jinping per riconfermare lo stanziamento di 2 miliardi di dollari in due anni destinati ai paesi in via di sviluppo più colpiti (Africa in primis), confermare l’avvio dei lavori per costruire la sede generale dell’African Centres for Disease Control and Prevention dell’Unione Africana ad Addis Abeba e promettere che il continente sarà tra i primi a ricevere il vaccino “made in Cina”.

Qui l’unica base militare cinese all’estero – L’Africa è da tempo centrale nei piani geostrategici cinesi. Come esempio, basti pensare che solo nell’ultimo decennio sono state più di 80, in 45 paesi africani, le visite di dirigenti di Pechino. Il continente ospita inoltre l’unica base militare all’estero cinese, in Gibuti, oltre a migliaia di soldati nelle missioni Onu. Una presenza militare che probabilmente aumenterà con basi in Kenya ed Angola.
Dal 2009, anno nel quale ha superato gli Stati Uniti, la Cina è il primo partner commerciale dell’Africa, al primo posto sia per le importazioni che per le esportazioni. Tra il 2013 al 2018 l’interscambio Cina-Africa è aumentato di undici volte, raggiungendo un valore di 185 miliardi di dollari. I flussi annuali di investimenti sono cresciuti sette volte fino ai 5,4 miliardi di dollari del 2018 e, secondo un rapporto del 2017 della McKinsey, l’Africa ospita circa 10mila aziende cinesi.

Ci sono dunque molte buone ragioni di voler mantenere una buona reputazione in territorio africano, eppure l’immagine del Dragone sembrava scricchiolare. Le numerose scoperte di attività fumose delle sue aziende in Africa, unite ai numerosi scandali ambientali e di corruzione, ne avevano intaccato la fama. Poi sono arrivati il Covid e le critiche su come la Cina ha gestito le prime fasi della pandemia, agevolandone la diffusione. A ciò si è aggiunta la recrudescenza di casi di razzismo contro la diaspora africana, registrati a Guangzhou nei primi mesi di lockdown. Fatti che hanno portato diversi governi a sud del Sahara a chiedere chiarimenti. La Cina, però, ha giocato bene le sue carte durante la pandemia migliorano la sua immagine. Lo dimostrano recenti sondaggi per cui ben più della metà della popolazione africana considera positiva l’influenza cinese su politica ed economia.

Con la crisi impossibile fare a meno dell’aiuto cinese – Purtroppo “il continente non può fare a meno della Cina in questo momento perché il virus ha avuto effetti devastanti molto più a livello economico che sanitario”, afferma Albert Honlonkou, economista beninese consulente della Banca Africana di Sviluppo (Afdb) in Africa Occidentale. Infatti, mentre l’Oms conferma l’Africa come la regione meno colpita al mondo e parla di una curva dei casi addirittura in fase discendente, le previsioni economiche sono drammatiche. Secondo l’Afdb quest’anno per la prima volta in vent’anni, il continente entrerà in recessione con una contrazione che potrebbe andare dall’1,7% al 3,4% del PIL. Il rallentamento dell’economia potrebbe creare 50 milioni di poveri e 30 milioni di disoccupati in più. “Le misure di contenimento al virus hanno rallentato sia la domanda che l’offerta locale e internazionale. I settori del turismo, delle forniture e il mercato delle materie prime sono stati i più colpiti e la recessione globale sta influendo anche sui flussi di aiuti internazionali. Occorrono stimoli immediati e urgenti di concerto con le banche centrali e la comunità internazionale”, conclude Honlonkou.

È a partire da questo scenario che Pechino consoliderà davvero la sua influenza. “Il vero nodo è l’enorme debito estero accumulato dai governi africani che non riusciranno a ripagare. È sul debito e la creazione d’infrastrutture che la Cina ha generato dipendenza economica su cui fare leva per i suoi interessi”, dichiara Stephen Chan, professore di Politica e Relazioni Internazionali alla SOAS di Londra. Al momento il debito con la Cina è di 148 miliardi di dollari secondo il CARI, pari al 20% del debito totale stando alle rilevazioni della Jubilee Debt Campaign: un’enormità. In giugno il presidente Xi Jinping ha annunciato che la Cina cancellerà o rinegozierà il debito dei paesi africani più colpiti per quest’anno. Secondo Chan che questo accada davvero “non è garantito e il rimborso potrebbe essere solo sospeso”. “Tuttavia , anche in caso di una cancellazione parziale la Cina chiederà come contropartita la priorità per le sue esportazioni in Africa. Un esempio in questo periodo di rivalità Cina-Usa a livello mondiale: la tanto osteggiata Huawei sta già crescendo fino a diventare il più grande fornitore di cellulari e di sistemi del continente dove c’è alta richiesta di tecnologia, ma la cosa non pare interessare”.

Europa e Usa guardano altrove – L’Occidente, infatti, per ora sembra restare alla finestra. I vecchi partner europei, presi dai problemi economici generati dal virus, così come gli USA, distratti dalle imminenti e incerte elezioni presidenziali, si sono limitati a fare annunci sullo stanziamento di aiuti che, seppur ingenti, sono stati etichettati come “false promesse” dalla propaganda cinese.Per Moustapha Kassé, professore emerito di Economia all’università Cheikh Anta Diop di Dakar “questa crisi dimostra che il continente è troppo esposto a elementi esterni come le fluttuazioni dei mercati e dunque vulnerabile. Una conseguenza di politiche neoliberiste portate avanti da anni e patrocinate dai vecchi partner occidentali. Pechino propone un modello alternativo che al momento è più appetibile. Siamo nella situazione ‘du donjon et du dragon’ (della fortezza e del drago): da un lato Trump e l’Occidente si chiudono ‘nei loro fortini’ con barriere doganali e fisiche da dove dicono che bisogna investire in Africa ma non lo fanno, dall’altro c’è il drago cinese che mette mano al portafoglio”.

Un’opinione oramai condivisa trasversalmente dalle élite del continente, ma non sempre dall’uomo della strada che alla fine subisce gli effetti diretti di questi giochi geopolitici. Con Mansour, un tassista dakarois, si parla di lotta senegalese mentre attraversando il quartiere di Pikine si passa accanto alla Aréne National du Sénégal, un enorme stadio da 50 milioni di dollari dedicato allo sport nazionale e gentilmente donato da Pechino. Mansour ricorda come la città era addobbata di bandiere cinesi e senegalesi durante la visita di Xi Jinping nel luglio del 2018 quando vennero consegnate le chiavi dello stadio al Presidente Macky Sall. In quell’occasione Sall fu il primo africano a firmare gli accordi per entrare nel progetto della “Nuova via della seta” cinese (Belt and Road Initiative). Oggi la Cina è il primo investitore diretto del Paese e continua a costruire opere mastodontiche. “Accablés de dette! Accablés de dette!” (oppressi dal debito!) commenta sbracciandosi Mansour che poi conclude smaliziato, “ci serve lavoro, ci serve produrre… o chi li pagherà tutto questo?”.

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