Facebook è ormai parte integrante delle campagne elettorali di ogni angolo del mondo, soprattutto di quelle statunitensi. La quantità di denaro versato dai team elettorali per pubblicizzare sulla piattaforma contenuti e parole d’ordine è da capogiro. Talmente alta da richiedere operazioni di schermatura, strategie di nascondimento dei flussi di denaro con filiere di società che, tramite i vari passaggi di compravendita, li rendono non rintracciabili. Secondo una denuncia penale presentata a luglio da Campaign Legal Center, la somma che la campagna di Trump avrebbe recentemente schermato si aggirerebbe attorno a 170 milioni di dollari.
Brendan Fischer, direttore del Centro sostiene che questo schema – che sarebbe utilizzato da tutti i candidati – sia assolutamente illegale, almeno stando alle regole in vigore della Federal Election Commission. Tutto ciò dimostra la crescente rilevanza attribuita a Facebook nel funzionamento dei processi democratici. Processi che si ritiene siano manipolabili o condizionabili dai contenuti promossi da vari gruppi o forze politiche, comprese quelle che promuovo la supremazia bianca e che spargono odio a piene mani nei confronti di diverse categorie sociali (neri, donne, immigrati, persone lgbtq).
Da più parti, infatti, è stato denunciato per lungo tempo il fatto che Facebook non avesse un adeguato sistema di moderazione dei post o commenti sulla propria piattaforma. E quando The Verge pubblicò la sua inchiesta sui moderatori di Facebook negli Stati Uniti, venne fuori che si tratta di lavoratori sottopagati e iper-oberati di lavoro, che operano con regole d’ingaggio assai confuse. In molti casi restano traumatizzati dai contenuti sui quali devono vigilare e, non di rado, finiscono per diventare essi stessi creatori e diffusori di contenuti violenti.
Travolta dalle critiche, anche a seguito dello scandalo scaturito dal caso “Cambridge Analytica”, l’azienda di Zuckerberg diede la notizia, nel novembre dell’anno scorso, di avere costituito un Facebook Oversight Board, composto da personalità di alto profilo provenienti da diversi paesi (tra cui: l’ex primo ministro della Danimarca, Helle Thorning-Schmidt e Alan Rusbridger, l’ex redattore capo del Guardian), affinché intervenga nei contenziosi scaturiti dai reclami degli utenti di Facebook che subiscono la censura. Una specie di “Facebook Supreme Court” che può dare, se interpellata dall’azienda, il proprio parere ex post, a censura già avvenuta ed entro tre mesi.
In ogni caso, è stato reso noto che questo Board sarebbe diventato operativo soltanto dopo le elezioni presidenziali di novembre. La somma investita da Facebook per la sua costituzione si aggira attorno ai 130 milioni di dollari. Much ado about nothing (molto rumore per nulla), hanno replicato alcuni studiosi, ricercatori, associazioni e comitati civici che da anni denunciano le condotte di Facebook, giudicandole scorrette o illegali (specie con riferimento alla profilazione illegale di molti utenti.)
Così, fatti due conti, hanno deciso di unirsi e costruire – come risposta a Zuckerberg – un “Real Facebook Oversight Board“ con il compito di vigilare e denunciare ogni irregolarità dell’azienda, quanto meno in questa delicata fase elettorale negli Stati Uniti.
I nomi del Real Board sono importanti e includono, tra i tanti, Shoshana Zuboff, l’autrice di Il capitalismo della sorveglianza, Toomas Henrik Ilves, ex presidente dell’Estonia, Maria Ressa, giornalista filippina attualmente in prigione perché accusata dal regime di aver violato la legge sulla diffamazione online (cyber libel), così come molte altre associazioni e Ong che, nel corso degli anni, hanno ampiamente criticato le attività di Facebook, da molteplici punti di vista.
Il 1° ottobre, il Real Facebook Oversight Board ha organizzato un evento su Zoom, per presentarsi e rendere noti gli obiettivi. Dopo circa un’ora di presentazione di ciascuno dei membri, con soli 8 minuti a disposizione, dove sono state snocciolate le solite critiche e lanciati degli avvertimenti generici – del tipo “Facebook, we are watching you!” – poco altro resta da riferire.
Non che la mobilitazione della società civile in difesa dei diritti individuali e della democrazia sia in sé un fatto negativo o da sottovalutare, ma rispetto alla potenza del colosso che si dovrebbe affrontare appare davvero poca roba, del tutto incapace di creargli anche il minimo grattacapo.
Tant’è che, risale a pochissimi giorni fa l’annuncio di Facebook di sospendere ogni forma di promozione dei contenuti di tipo elettorale durante la settimana prima delle elezioni. La decisione pare sia stata giustificata con l’intento di non ostacolare il processo democratico e impedire la diffusione di fake news a distanza di pochi giorni dal 3 novembre. Peccato però che, come denunciano molti uffici elettorali, questo divieto finisca per impedire anche la circolazione delle informazioni ufficiali circa i luoghi e le modalità di votazione, che, si sa, nel caos creato dalla pandemia in corso potrebbero essere cruciali.