Dando notizia del ballottaggio seguito alle elezioni comunali del 4 e 5 ottobre scorso a Reggio Calabria e della riconferma di un sindaco di centrosinistra, pochi media nazionali hanno ricordato che quest’anno ricorre il mezzo secolo dei giorni del “boia chi molla”, così come vennero provocatoriamente definiti nell’estate reggina del 1970.
Una vera e propria guerra civile con morti e devastazioni, una vicenda sanguinosa poco nota ai più, anche a causa della (volutamente) scarsa comunicazione di allora e ancora oggi piuttosto offuscata nella scarsa memoria storica degli italiani. Motivazione ufficiale dei tumulti, l’attribuzione del capoluogo di regione a Catanzaro che fece infuriare gli abitanti di Reggio i quali, per numero di abitanti e radici storiche, affermavano di meritarla.
Gianfrancesco Turano, calabrese, inviato speciale de L’Espresso, ha voluto riportare a galla la vicenda attraverso un libro (Salutiamo, amico, Giunti), un romanzo storico che l’autore preferisce definire “di formazione”, genere di antica tradizione, dall’Odissea alla Bildungsroman di Goethe.
Sono infatti due adolescenti, Nunzio e Luciano, che, attraverso una sgangherata corrispondenza (dal lessico sgrammaticato e calabresizzato che scatena spesso effetti comici nel lettore) divengono il fil rouge della storia. Due tredicenni molto diversi fra loro, ma legati da una stretta amicizia: uno è più consapevole, sia pur a modo suo, di quanto sta avvenendo nella propria città, l’altro meno.
“Il 1970 segna l’inizio di una guerra a bassa intensità che ha il suo primo episodio il 12 dicembre dell’anno precedente, il 1969, con la strage alla Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana a Milano”, scrive Turano nelle 70 pagine conclusive del libro (che ne conta ben 489!) dedicate a un resoconto dei fatti e a una minuziosa cronologia nazionale. Tensioni mai sopite, quelle di Reggio, tanto che la presentazione in città del libro di Turano è stata oggetto, a 50 anni dai fatti, di contestazioni da parte della destra estrema.
Ferite ancora aperte, dunque, che certo non hanno contribuito a sanare la realtà criminale locale che, se si è modernizzata e autoesportata a Roma e al nord (pensiamo a certi recenti casi in Brianza) e se non è più la rituale “onorata società”, poi ‘ndrangheta, di un tempo, continua sia pur parzialmente a inquinare una realtà locale che ha ancora molta strada da fare nel suo percorso verso la legalità.
Del resto, scrive ancora Turano “la causa dei Moti di Reggio sembra inspiegabile oggi quanto è parsa incomprensibile allora” […] e nasce con “l’applicazione, a oltre vent’anni di distanza, del titolo V della Costituzione che istituiva le Regioni”. Anche in Abruzzo c’erano stati malcontenti dopo la promozione a capoluogo de L’Aquila invece che di Pescara. Ma si trattò di storie più o meno campanilistiche, mentre “nessun precedente è paragonabile a quanto accade sullo Stretto. Undici morti, migliaia di feriti, decine di attentati dinamitardi, scioperi a oltranza, scuole chiuse per mesi e trasformate in caserme per loggiare i reparti di polizia, carabinieri e dell’esercito impegnati negli scontri, le attività economiche e commerciali paralizzate, sospensione di credito da parte delle banche, barricate, assalti agli uffici pubblici (questura, prefettura, municipio, poste) e alle sedi dei partiti politici di sinistra e dei sindacati”, bollati dalla destra come anti-reggini.
Registi più o meno occulti dei moti, personaggi come Delle Chiaie, Borghese e il calabrese Pino Rauti. E dal Movimento sociale italiano e dalla Cisnal locale emerge il capetto Francesco “Ciccio” Franco. Restano seri dubbi anche sulla casualità di un incidente automobilistico che causò la morte di quattro anarchici reggini, travolti da un camion.
Conclusione: il capoluogo resterà Catanzaro, ma Reggio – grazie al cosiddetto “pacchetto” dell’allora presidente del consiglio, il Dc Emilio Colombo – riceverà un sacco di soldi per siderurgia, meccanica e chimica, da destinare alle “tre aree che corrispondono alle tre zone mandamentali della ‘ndrangheta”.
E i nostri due adolescenti? Contornati da altri personaggi chiave del romanzo, fra i quali l’ingegner Stranges, un burattino che crede d’essere un burattinaio, e il nonno, rappresentante di una arcaica criminalità ormai defunta, continuano a scriversi, imperterriti. Luciano si fa ‘anarqiqo‘ – che nel suo linguaggio sta per anarchico – e Nunzio che non la pensa come lui conclude – in una missiva al nonno, a epilogo dei moti reggini – con un post scriptum: “Non so che ha scritto prima di me Luciano, ma sono d’accordo perché è mio compare incrollabile. E voi no. Salutiamo, amico”.