Ha combattuto prima come militare in Somalia e Kosovo, impegnato per oltre 10 anni in missioni. Poi, al ritorno in Italia, ha dovuto combattere contro la malattia contratta proprio nei teatri di guerra, un tumore al sistema linfatico. Marco Diana, l’ex maresciallo dell’Esercito italiano diventato simbolo nella battaglia contro l’uranio impoverito, è morto ieri, il 7 ottobre a 50 anni. Era ricoverato al Policlinico di Monserrato (Cagliari) da un paio di giorni.

Oltre che contro il tumore, Diana ha dovuto intraprendere una lotta anche contro le istituzioni, che non volevano riconoscergli la causa di servizio, contro lo Stato, dal quale si sentiva abbandonato, ma anche contro tutti quelli che non volevano accettare che il male fosse stato provocato dall’uranio impoverito.

Originario di Villamassargia in Sardegna, Diana ha combattuto a lungo per ottenere quanto gli spettava. Infine la Corte dei conti gli ha riconosciuto la causa di servizio e il diritto alla pensione privilegiata di prima categoria con relativo risarcimento. Ma anche dopo, l’ex militare ha dovuto lottare a lungo contro la burocrazia per ottenere quello che gli spettava. Negli anni si è battuto pubblicamente per la ricerca della verità legata alle malattie contratte dai soldati durante le missioni all’estero.

Nel 2013 dalla sua pagina Facebook aveva annunciato di dover vendere la casa per pagarsi le cure, un appello-denuncia che fece il giro d’Italia. Dopo la notizia della sua morte, su quella stessa pagina Facebook sono comparsi decine e decine di messaggi di amici, parenti ma anche di tante altre persone che hanno voluto salutarlo per l’ultima volta.

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