Un operatore di San Marcellino, associazione che dal 1945 sostiene chi vive ai margini della società nel centro storico di Genova, rischia fino a sei anni di carcere per aver aiutato a iscriversi all’anagrafe una persona senza dimora. Il rinvio a giudizio riguarda fatti avvenuti nel gennaio 2019. Dal 2018, infatti, il Comune ha deciso di concedere l’iscrizione anagrafica di persone senza casa (obbligatoria ai sensi della Circolare Istat 29/1992), esclusivamente a chi dimostri di essere seguito da associazioni impegnate sul fronte delle povertà estreme. Questa apparente formalità si rivela un problema per chi vive in strada perché senza una residenza si perde automaticamente una serie di diritti essenziali come quello all’assistenza sanitaria, al voto, al gratuito patrocinio, alla riscossione della pensione, all’iscrizione al collocamento e all’accesso al welfare. Un servizio quindi necessario che da sempre il Comune di Genova ha gestito con i propri operatori, fino all’arrivo dell’ex assessora leghista Francesca Fassio che, due anni fa, decise che quel servizio fosse “ingestibile” perché permetteva la registrazione “di un numero troppo elevato di persone”.

Un taglio sul sociale che fin da subito si è ripercosso negativamente sulle persone più fragili, costrette a districarsi tra gli infiniti meandri della burocrazia e trovare l’associazione che si faccia carico della garanzia di un loro diritto costituzionale, ma che oggi colpisce anche volontari e operatori che si impegnano a sostenere queste persone messe ai margini della società nell’esercizio dei propri diritti.

Tutto ha inizio quando una donna, seguita dal 2016 da San Marcellino, si rivolge al centro di ascolto per chiedere un certificato che attesti il suo stato di “senza dimora”, la formalità burocratica richiesta dal Comune per consentire l’iscrizione all’anagrafe. L’ipotesi di reato emerge nel momento in cui la donna, certificato di San Marcellino alla mano, ottiene i documenti da un’impiegata comunale millantando generalità che, alla luce di successivi controlli, non trovano riscontro nel registro del comune di nascita dichiarato.

Ora l’operatore, difeso dall’avvocato Vincenzo Lagomarsino, dovrà rispondere del reato di “concorso in falsa attestazione sull’identità personale”, delitto che prevede una pena che va dai due ai sei anni di reclusione. A quanto si apprende, nonostante la signora avesse con sé regolare denuncia di smarrimento dei propri documenti, l’incaricato di San Marcellino avrebbe dovuto inserire l’allocuzione “sedicente” prima delle generalità auto-dichiarate dalla donna (che peraltro sono le stesse con le quali continua a farsi chiamare da anni).

Nonostante le sue condizioni di palese fragilità (socio-economica e psichica), questa persona senza dimora è stata rinviata a giudizio e, in concorso con lei, chi l’ha assistita. Non solo l’operatore di San Marcellino: a processo andranno anche due volontari “occasionali”. Mosse da mero spirito di solidarietà, due persone si sarebbero infatti offerte di accompagnarla all’anagrafe dopo averla incontrata mentre chiedeva l’elemosina, accettando di testimoniare la sua identità come necessario al momento dello smarrimento dei documenti. A ingarbugliare ulteriormente la matassa è inoltre l’ipotesi che si possa essere verificato un caso analogo, nello stesso periodo, sempre all’insaputa dell’operatore incaricato del servizio di certificazione dello “stato di senza dimora” ai fini dell’iscrizione anagrafica.

“Una grottesca disavventura del diritto che ci auguriamo finisca a lieto fine – chiosa Emilio Robotti, referente ligure dell’associazione ‘Avvocato di strada’ –, ma indicativa di drammatiche responsabilità politiche. Per questo stiamo valutando i margini per avanzare una diffida che intimi al Comune la riapertura dello sportello chiuso nel 2018. Un diritto costituzionale non può essere delegato dall’ente pubblico alla ‘libera iniziativa’ di singoli operatori del privato sociale”.

Intanto dalla sede di San Marcellino comunicano di aver deciso di interrompere le certificazioni: “Abbiamo deciso di interrompere il servizio per cercare di sollevare il problema, nella speranza di contribuire a migliorare l’applicazione dell’articolo 3 della nostra Costituzione – spiega Danilo De Luise, responsabile dei servizi alla persona dell’associazione – Non possiamo tacere mentre viene ostacolato il ‘diritto di esistere’ delle persone più fragili”.

Una posizione argomentata più ampiamente sul sito dell’associazione: “L’iscrizione all’anagrafe delle persone senza dimora è strettamente legata all’esercizio di diritti costituzionali di base. Senza domicilio salta l’accesso a diversi servizi sanitari (medico di base, tessera sanitaria), socio-assistenziali (forme di sostegno al reddito, pensioni) e abitativi (casa popolare) erogati dagli enti pubblici”.

La speranza dei referenti dell’associazione è che il Comune possa cogliere l’occasione per invertire la rotta: “Non possiamo essere lasciati nella condizione di scegliere se abbandonare una persona a sé stessa o, per accompagnarla all’esercizio di un proprio diritto, mettere i nostri operatori di fronte a pesanti rischi penali dopo avergli fatto assumere responsabilità che non sono di loro stretta competenza”.

Quello che non capiscono le associazioni del terzo settore impegnate nell’accompagnamento sociale di chi vive in strada è perché un servizio reso senza problemi fino al 2018 sia a un tratto diventato “ingestibile” dal Comune, che oltre all’iscrizione anagrafica ha anche eliminato il servizio di ricezione della posta delle persone senza dimora presso un ufficio dedicato in via Mascherona.

Ora che l’ex-assessore ai servizi sociali Francesca Fassio, già contestatissima dal mondo del sociale, si è recentemente dimessa dall’incarico per candidarsi – senza successo – alle Regionali con la Lega, gli operatori si augurano che possa intervenire direttamente il sindaco Marco Bucci, che in attesa di ridefinire gli assessorati vacanti ha trattenuto la delega ai servizi sociali.

“Ripristinare un servizio essenziale non sarebbe un gesto di ‘carità’ ma un atto dovuto – ribadiscono gli operatori – perché significherebbe semplicemente ripristinare un servizio essenziale a garantire ai cittadini più svantaggiati la tutela dei propri diritti costituzionali”.

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