“Il capitale naturale deve entrare nei programmi di formazione, dalle materne a tutti i corsi universitari. Tutti.” Così termina il mio primo intervento su questo blog. Ogni tanto credo sia necessario ripeterlo. Vediamo perché.
Al funerale di Rossana Rossanda, Maurizio Landini pronuncia una frase emblematica: “La salute non si vende e non si paga.” È la risposta del sindacato al dilemma salute e lavoro. Se una fabbrica fa ammalare chi ci lavora e chi vive nelle vicinanze, è giusto che continui a minare la salute umana perché i salari che eroga sostengono molte famiglie? È giusto trovarsi nella condizione di compromettere la propria salute, e quella dei propri cari, in cambio di denaro?
La salute umana è spesso intesa in termini di cura delle malattie. La medicina si occupa di ridarci la salute, con l’ausilio della farmacologia. La medicina preventiva suggerisce comportamenti rispettosi per la salute e diagnostica precocemente le patologie, curandole prima che diventino troppo pericolose. Ma la nuova frontiera della salute è la salute unica: non possono esistere umani sani in un ambiente malato. La vera prevenzione si attua curando la salute dell’ambiente. Moltissime patologie derivano da condizioni ambientali non idonee e la cura dell’ambiente prevede l’utilizzo di conoscenze che completano quelle, insostituibili, dalla medicina.
Il Green new deal prevede una cura meticolosa dell’ambiente, con il traghettamento della salute umana verso la salute unica. E a questo punto la frase di Landini si completa con: “L’ambiente non si vende e non si paga.” Un cambio di prospettiva che allarga le aree di intervento e che apre la strada a moltissima innovazione nei sistemi di produzione e consumo. Perché questo avvenga, però, bisogna cambiare cultura, ed eccoci alla frase introduttiva.
Quanta natura c’è nei percorsi di formazione? Da 40 anni insegno argomenti che riguardano la natura e ho accolto all’università migliaia di studenti appena maturati. Il loro livello di conoscenza dei sistemi naturali, intesi come biodiversità ed ecosistemi, è di solito zero. A volte è sottozero, perché invece di semplicemente ignorare questi argomenti, pensano di possederli in base a convinzioni errate. Nei percorsi universitari non specificamente dedicati alla natura, la natura non c’è.
Questo restringe il novero dei competenti a uno sparuto gruppetto che, di solito, conta pochissimo nel panorama culturale e politico del nostro paese che, non a caso, non ha mai espresso significativi partiti “verdi”, proprio perché il tema non è percepito come importante. Potrebbe non esserci bisogno di “verdi” se tutti i partiti avessero contezza dell’importanza della natura, e questa fosse una componente trasversale a tutti i movimenti politici. Ma non è presente in nessun partito.
Questa carenza culturale fa sì che si stenti a capire che il Green Deal ha come argomenti trasversali la biodiversità e gli ecosistemi. Neppure Papa Francesco è riuscito a farcelo entrare in testa con la sua Laudato Si’. La conversione ecologica è accettata a parole ed è disattesa nei fatti.
L’assalto alla diligenza del Recovery Fund avrà un severo vaglio di sostenibilità ambientale, sociale ed economica? Esistono le competenze e la volontà politica per farlo? Esistono linee guida su come farlo? Quelle esistono. Le ha promulgate la Commissione, e vedono biodiversità ed ecosistemi trasversali a tutte le iniziative. Questa è la richiesta. Che poi altro non è che la conversione ecologica di Francesco: la sostenibilità ambientale. Siamo sicuri che nei ministeri e nelle pubbliche amministrazioni ci siano le competenze per elaborare o valutare progetti che ottemperino a queste istruzioni? Temo di no.
Perché questi temi non fanno parte dei programmi di formazione e la cosiddetta “classe dirigente” attuale non ha ricevuto conoscenze adeguate su questi argomenti e, alla fine, non li reputa importanti. Come si fa a considerare importante quello che non si conosce? In alcuni campi lo facciamo. Non siamo tutti medici ma ci affidiamo ai medici per curare la nostra salute, reputando importante quel che non conosciamo e che loro conoscono. Ma in campo ambientale no, non è così. Gli orecchianti imperversano e gli ecologi della domenica, con scarse basi culturali sull’argomento, si propongono come risolutori di problemi che non sono neppure in grado di definire, non diciamo di risolvere.
Una parte dei fondi del Recovery Fund dovrà quindi essere usata per inserire la natura in tutti i corsi di formazione, dall’asilo all’università. Con corsi di aggiornamento degli insegnanti, nuovi libri di testo, formazione di nuove competenze didattiche. Non possiamo lasciare ai programmi televisivi di intrattenimento naturalistico il compito di alfabetizzare ecologicamente gli spettatori con pillole informative che raramente aumentano la conoscenza e la consapevolezza. Questo compito deve essere assolto dalla scuola e dall’università. Ogni tanto lo ricorderò…