Nel 2020 esiste ancora un romanzo con una frase conclusa da un punto esclamativo. Non è la nuova fatica letteraria di Levante, ma capita a pagina 22 di Cambiare l’acqua ai fiori(edizioni e/o) scritto da Valerie Perrin, il titolo più venduto nella fase di lockdown e appena post lockdown in Italia tanto da farlo diventare fenomeno editoriale inatteso. Nell’ossessiva, ridondante, querula prima persona del libro, quella di una signora un po’ sempliciotta, lasciata all’improvviso da un marito sempre assente che mai l’ha amata, prima insieme a lui guardiana di un passaggio a livello nell’est della Francia, poi custode di un cimitero, oltre al punto esclamativo (“mai affezionarsi!”) abbondano anche periodi inondati di punti interrogativi (a pagina 218 ce ne sono sei in circa venti righe). Certo non tutti devono ricopiare Il male oscuro o un libro qualsiasi di Scurati, ma santa miseria tutta questa allegra confidenzialità donata dall’interpunzione più radicale a che serve? Perrin – lasciamo starei percorsi della vita extratestuali, che comunque qui un tantino centrano pure – dispone un chilometrico combinato di superficialissima tranche de vie isolata e irsuta che vorrebbe rifare il verso, anzi richiamare pedissequamente (si veda l’evocazione esoterica di un kimono), L’eleganza del riccio di Muriel Barbery (sempre edizioni e/o – bravi loro comunque perché sanno come trasformare il loglio in grano). In questo cimitero in cui si richiama la solita partita di giro corale sgangherata (becchini, preti, pompe funebri) più fumettistica che letteraria, la protagonista Violette Toussant vede riemergere l’infido maritaccio scomparso, incontra il commissario innamorato, elenca all’infinito morti sconosciuti che tali rimangono, date di nascita e morte, e riannoda i fili di quando giovinetta un po’ sgrammatica partorì senza che lui e la famiglia di lui la degnassero di attenzione. Ogni capitolo è introdotto da una breve massima (alla decima se ne esce storditi e ci si chiede di nuovo: perché?); la trama è un semplice recupero di tre/quattro dimensioni temporale della storia segmentate e assemblate nemmeno con tanta grazia; ma soprattutto la lingua che Perrin crea è un campo di battaglia cacofonico e pasticciato tra ironia imbarazzante (di fronte a un bicchiere di vino: “sono una guardiana di cimitero, bevo solo lacrime”), elenchi di aggettivi da dizionario dei sinonimi, descrizioni d’ambiente che stridono con qualsivoglia ispirazione poetica, e tutta una tavolata precotta di icone radical chic – da Brassens a Delerue, da Eddy Mitchell a Brel, fino a Prevert – che trasformano questo tentativo di letteratura tendente all’alto in una salmodia trash. Sopravvalutatissimo. Voto (con la Barbery che ascolta): 3.