di Diego Battistessa*
Di fronte alle coste di una piccola isola delle Antille Maggiori, 528 anni fa, tre caravalle al comando di Cristoforo Colombo fecero la loro apparizione. La mattina del 12 ottobre del 1492, il marinaio Rodrigo de Triana, a bordo della Pinta, gridava “Tierraaaaa …!” dando inizio ad un capitolo dai risvolti epocali. Un evento dalle conseguenze inimmaginabili per il navigante genovese e il suo equipaggio, cosi come per tutti i popoli indigeni che di lì a pochi anni avrebbero sperimentato un’apocalisse senza precedenti.
Cristoforo Colombo ribattezzò quell’isola (oggi parte delle Bahamas) come San Salvador ma non aveva “scoperto l’America”, come narrano oggi i nostri libri di scuola, almeno non in cuor suo. Colombo era infatti convinto di aver trovato una nuova via commerciale per le Indie dimostrando che il mondo non era piatto, un cammino diretto che avrebbe permesso ai re cattolici Isabella I di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona di primeggiare sui rivali europei.
Cristoforo Colombo avrebbe ripetuto altri tre viaggi verso quelle terre, compiendone quattro in totale: l’ultimo di questi nel 1502. Già pochi anni dopo però, il geografo e cartografo tedesco Martin Waldseemüller aiutava a fare chiarezza sull’equivoco di Colombo, pubblicando nel 1507 un lavoro cartografico dal titolo Universalis Cosmographia nel quale le terre osservate dal genovese prendevano il nome di America (in onore al navigante italiano Amerigo Vespucci) e per la prima volta le stesse terre apparivano separate dall’Asia. Questo non intaccò, almeno non per i posteri, l’immagine di Colombo, i cui natali sono oggi motivo di discussione con rivalse spagnole e portoghesi.
Quello che è stato intaccato, grazie ad un’analisi in chiave decoloniale, è stato l’impatto e la narrativa con la quale si dipinge oggi quell’avvenimento. Il 12 ottobre del 1492 fu “scoperta l’America” secondo la visione europea (Columbus Day negli Usa e Discovery Day proprio alla Bahamas) che in questo modo toglie intrinsecamente dignità all’esistenza di popolazioni indigene ancestrali che abitavano quelle terre prima che le caravelle arrivassero a San Salvador. In questa visione, dunque, l’America era “coperta” prima del nostro arrivo, silente e ininfluente per la Storia. Con questa narrativa si rende implicito, dunque, che l’America assume importanza solo in quanto entra in contatto con l’Europa e non in quanto soggetto a sé stante.
Poi c’è la questione della civilizzazione e cristianizzazione delle popolazioni indigene, viste come selvagge, arretrate, subumane. La loro ecatombe inizia nel mare che spagnoli ribattezzeranno successivamente Mar dei Caraibi. Lì, i popoli indigeni dei Tainos e dei Caribe sono i primi a sperimentare l’incontro brutale e sanguinoso dei due mondi. In pochi decenni queste popolazioni scompariranno, sfruttate fino all’inverosimile e annichilite fisicamente e culturalmente dai nuovi coloni.
Famoso il sermone del frate domenicano Antón de Montesino che il 21 dicembre del 1511, sull’isola la Hispañola (oggi divisa tra Santo Domingo e Haiti) tuonava contro l’impero spagnolo e contro ciò che i cristiani stavano facendo agli indigeni. Un sermone che ebbe semi che radicarono e diedero frutti: tra il pubblico si trovava infatti Bartolomè de las Casas, che a quel tempo era un proprietario di terre e di schiavi indigeni ma che presto sarebbe diventato uno dei più grandi alleati dei popoli ancestrali. Una storia dunque, quella di Colombo, del suo sbarco e delle conseguenze di tutto ciò, che trova diverse narrazioni, rivendicazioni e interpretazioni.
Ad oggi la data del 12 ottobre è celebrata, ricordata e commemorata sia in Europa che nel continente americano in modo molto diverso. Nel regno di Spagna si celebra il 12 ottobre come il giorno dell’ispanità (Día de la Hispanidad), una celebrazione nazionale che ha sostituto l’antica ricorrenza del giorno della razza (Día de la raza). Quest’ultima dicitura, di marcato stampo coloniale ed etnocentrico, è però rimasta vigente in alcuni paesi latinoamericani come in Messico, in Colombia, in Honduras (si celebra il 3 agosto ricordando la partenza di Colombo dal porto di Palos in Portogallo) e in Uruguay.
In altri paesi della regione, grazie anche soprattutto ai governi progressisti che si sono alternati all’inizio del terzo millennio, si è decostruito il senso di questo giorno dandogli una nuova narrativa, una nuova re-significazione che evade dalla visione discriminatoria, offensiva e colonialista. In Argentina, Cristina Fernandéz de Kirchner cambiò il nome di questa celebrazione in “Giorno della diversità culturale”, Hugo Chávez in Venezuela lo fece diventare “Giorno della resistenza indigena”, Rafael Correa in Ecuador plasmò il nome “Giorno dell’interculturalità e della plurinazionalità”, Eduardo Frei Ruiz-Tagle in Cile cambiò il nome in “Giorno dell’incontro dei due mondi” ed Evo Morales in Bolivia coniò il nome di “Giorno della decolonizzazione”.
Vediamo dunque come la disputa sul presente e sul passato dell’identità americana (continente che molti popoli indigeni chiamano Abya Yala) sia accesa e dirompente. Quest’anno si aggiunge al dibattito anche la nuova richiesta formale inviata tramite lettera dall’attuale presidente messicano, Andrés Manuel Lopez Obrador, a Papa Francesco affinché la Chiesa da lui guidata chieda ufficialmente perdono per gli abusi della conquista delle Americhe.
*Docente e ricercatore dell’Istituto di studi Internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” – Università Carlos III di Madrid. Latinoamericanista specializzato in Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Migrazioni. www.diegobattistessa.com