La Procura di Catania aveva chiesto l’archiviazione, perché "il fatto non sussiste o comunque non costituisce reato". L'associazione antimafia Rita Atria, con l’avvocato Goffredo D’Antona, si era opposta dopo avere denunciato la pubblicazione su Facebook di un video in cui i due descrivevano il rione San Berillo come la "patria dell’illegalità", un "quartiere in mano agli immigrati clandestini" dove "regnano spaccio, contraffazione e prostituzione". Oltre al segretario del Carroccio in Sicilia, le accuse sono rivolte anche a Fabio Cantarella, assessore al comune di Catania
Un intero quartiere bollato come “gestito da extracomunitari irregolari” che commettono “ogni tipo di reato”. Con frasi dirette a “convincere i follower che le strade riprese sono pericolose, caratterizzate da liti e scontri tra gruppi etnici contrapposti”. Sono alcune delle motivazioni, messe nero su bianco nelle quindici pagine di ordinanza, con cui la giudice per le indagini preliminari Giuseppina Montuori ha disposto l’imputazione coatta per il senatore leghista e commissario del Carroccio in Sicilia Stefano Candiani. Stessa posizione per l’assessore al Comune di Catania, e vice segretario isolano, Fabio Cantarella. Entrambi sono accusati di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa. I due erano stati denunciati dall’associazione antimafia Rita Atria, rappresentata dall’avvocato Goffredo D’Antona, dopo la pubblicazione di una diretta Facebook, registrata a luglio 2018 tra i vicoli dello storico quartiere catanese di San Berillo. Il video, ancora visibile nel profilo social dell’ex sottosegretario all’Interno Candiani, ha accumulato più di 40mila visualizzazioni e poco meno di quattrocento commenti in tempo reale, molti dei quali razzisti e con frasi di puro incitamento alla violenza, tra cui “buttarli a mare da dove sono venuti” e “metterli nei forni”. Per questo motivo insieme ai luogotenenti di Salvini nell’isola ci sono 14 persone indagate: la loro posizione è stata stralciata.
Sulla vicenda la procura di Catania, a dicembre 2019, aveva depositato una richiesta di archiviazione “perché il fatto non costituisce reato” a cui si era però opposta l’associazione antimafia. La diretta Facebook cominciava addirittura indicando e riprendendo un immigrato, definito “ubriaco o drogato” e autore di un reato, che veniva portato via dagli agenti di una volante della polizia. “Nel corso di quella serata – scrive però la giudice nell’ordinanza – in quella zona c’è stata una sola azione delle forze dell’ordine per un soggetto di origini africane, prelevato per essere identificato”. Le altre affermazioni incriminate riguardano la qualificazione degli immigrati come “marmaglia” dedita “a tutti i tipi di criminalità: contraffazione, prostituzione e spaccio”, specificando come gli abitanti del quartiere fossero “essenzialmente immigrati clandestini e pseudo-richiedenti asilo”. Parole che secondo la giudice miravano a dare per scontata “la natura irregolare” di tutte le persone che popolano San Berillo; ex quartiere a luci rosse della città, da anni è al centro di progetti di recupero mai realizzati dopo una imponente speculazione edilizia.
“La reiterata insistenza sulla pericolosità sociale degli immigrati ripresi – motiva la giudice – s’appalesa del tutto idonea a fomentare e acuire un generalizzato sentimento di diffidenza e discriminazione”. Per giustificare la presa di posizione nell’ordinanza viene citato anche un precedente con protagonista un altro politico leghista. Era il 2013 quando l’allora europarlamentare Mario Borghezio interveniva durante la trasmissione La Zanzara su Radio24. Al centro delle sue invettive non finirono però i migranti provenienti dall’Africa ma il popolo rom, con una rappresentanza che era stata ricevuta dalla presidente della Camera Laura Boldrini. Nelle dichiarazioni Borghezio aveva definito i rom come “facce di culo”, aggiungendo che “una buona percentuale” dei ladri “sono rom”. “Una propaganda di idee – la definisce la giudice nell’ordinanza facendo una sorta di parallelismo con il caso Candiani-Cantarella – finalizzata a influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico e a raccogliere adesioni, manifestando una forma di odio razziale o etnico”. Inutile la strategia difensiva dell’avvocato del leghista Candiani di fare valere l’articolo 68 della Costituzione. Cioè quello secondo cui “i membri del parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Su questo la giudice, citando altri precedenti tra cui quello dello stesso Borghezio, indica come la Corte di Cassazione abbia “ribadito che è cruciale, per i politici che si esprimono in pubblico, evitare commenti che possano favorire l’intolleranza”.