Professor Revelli, un documento di 385 pagine, la proposta di un “Patto per l’Italia” per l’utilizzo dei fondi europei, continue apparizioni su stampa e tv del presidente di Confindustria Carlo Bonomi per ripetere sempre la stessa cosa: date i soldi solo alle imprese. Cosa la colpisce di questa nuova Confindustria e della nuova impostazione che sta dando al rapporto con lavoratori, sindacati?

Mi colpisce la totale mancanza di una visione strategica, l’assoluta incapacità di saper pensare in un’ottica di medio lungo termine. Non si è in grado di valutare gli effetti che le proprie decisioni e azioni svilupperanno nel tempo, di cogliere insomma quelle che sono le evoluzioni di uno scenario che cambia. Domina invece una sorta di “brevitempismo” che non riesce ad andare al di là del prossimo bilancio trimestrale. E’ un modo di pensare ed agire che finisce e finirà per essere controproducente per la stessa industria italiana e, purtroppo, per la società nel suo complesso. Dietro il “chiagni e fotti” di Bonomi, in cui gli imprenditori si dipingono come “le vittime” anche se non lo sono affatto, c’è però una Confindustria che in questo momento si sente forte e vuole passare all’incasso. Tutto a noi e tutto subito.

Il volume “Il coraggio di cambiare” propone un paese impostato sul concetto di “homo faber”, l’uomo come artefice unico del proprio destino. Pensa sia una strada percorribile per un paese come il nostro?

E’ una visione della società datata e sorpassata, l’ideale dell’homo faber ha già dimostrato tutte le sue debolezze nel corso del ‘900. E’ un concetto con i piedi di argilla perché nella realtà, nella vita vera e non solo immaginata, l’uomo artefice unico del proprio destino non esiste e non può esistere. Ogni persona è profondamente interconnessa con le altre e da queste relazioni dipende, piaccia o meno. Qui si tenta invece di recuperare l’idea thatcheriana secondo cui la società non esiste ed esistono soltanto individui. Ma questa idea ha già ben mostrato quello che produce: solitudini individuale che alimentano una dilagante angoscia collettiva.

A proposito di solitudini…lo smartworking, inteso riduttivamente come lo viviamo oggi, in sostanza lo stesso lavoro che si fa in ufficio ma svolto da casa. Una condizione che offre opportunità ma anche rischi. Tra questi anche il fatto che le relazioni si fanno più deboli, si indebolisce la solidarietà tra lavoratori e la capacità di far valere i propri diritti. Diversi rappresentanti sindacali rilevano come tutto stia diventando più difficile in questa dimensione molto dispersiva…

E anche qui Confindustria sta cercando di sfruttare furbescamente la situazione. Vede l’opportunità per creare una situazione in cui il lavoratore ha i vincoli del dipendente ma il trattamento di un autonomo. Un subordinato esterno. E si inizia ad introdurre il concetto di una retribuzione valutata su quanto prodotto più che sul processo.

Più nello specifico Confindustria propone modifiche anche per quanto concerne la sanità, la scuola, la formazione. Cosa ne pensa?

Certamente perché l’idea è quella di totalizzare l’approccio imprenditoriale che viene calato in tutti gli ambiti. Ma questo modo di agire può avere effetti nefasti e risvolti pericolosi. Pensiamo al difficile periodo che stiamo vivendo, in Francia si è svolto un approfondito dibattito critico su quello che è stato il funzionamento degli ospedali durante la pandemia. Le trasformazioni intraprese negli ultimi anni, alla prima vera prova dei fatti, hanno prodotto esiti devastanti. Si è cercato di replicare in ospedale il modello “just in time”, a flusso teso, che caratterizza le linee produttive industriali. Il modello Toyota insomma in cui si abbattono i costi fissi ma si crea una struttura molto vulnerabile. Basta un piccolo intoppo perché tutto si blocchi. Ora, questo è accettabile quando il blocco si traduce nella temporanea riduzione di auto prodotte. Ma quando accade nel sistema sanitario significa che le persone muoiono. Lasciare gli ospedali con le dotazioni minime per gestire una situazione di normalità in un’ottica di pura efficienza, e non con le risorse che servirebbero invece per poter gestire le reali necessità della popolazione, ha prodotto la saturazione delle terapie intensive e quindi vittime.

Questa concezione viene replicata anche per la scuola. Un mondo che si vuole in prevalenza al servizio dell’impresa e della produzione sebbene sia stato ampiamente documentato quanto possa essere nociva per gli alunni.

Purtroppo è così, la scuola che viene intesa come un luogo in cui si lavora sulle funzioni più che sulle persone. Si insegna a fare delle cose, si fa in modo che una persona sappia fare una determinata cosa in vista del suo inserimento nel sistema produttivo. Questo va bene ma il problema è che tutto il resto conta poco o nulla. Così facendo però si allevano e si formano degli individui culturalmente “poveri”, degli analfabeti civici che sanno fare “quella cosa” ed esauriscono in quello la loro funzione.

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