Pedro di Iorio è il responsabile del servizio accoglienza immigrati della Caritas Ambrosiana. Cerca nella memoria tutti i volti che ha visto nel corso dei mesi precedenti. Raccontano di storie diverse che hanno in comune un aspetto: “La sofferenza. Vivere per strada abbrutisce, svilisce”. Nel periodo da aprile ad agosto gli sportelli e il servizio della Caritas Ambrosiana hanno registrato un’impennata di richieste d’aiuto da parte di persone rimaste senza casa. Il colpevole è da ricercare nella crisi economica innescata dal coronavirus. Lavori già precari andati persi e redditi azzerati. In tutto si contano 314 senza fissa dimora in più a Milano: 187 uomini, 27 donne e 25 nuclei familiari. Una crescita del 30% rispetto all’anno precedente per quanto riguarda gli individui e del 40% per le famiglie. Sul totale, per il 60% si tratta di immigrati che non hanno potuto continuare la permanenza nei centri di accoglienza oppure che vivevano in appartamenti condivisi con connazionali.

“La modalità più diffusa è l’affitto a posto letto: qualcuno che ha in affitto una casa la subaffitta a più persone facendo pagare – appunto – il singolo posto letto”, spiega Di Iorio a Ilfattoquotidiano.it. “In genere la scala che porta dal malessere al benessere è: strada, centro di accoglienza, posto letto con connazionali, affitto in autonomia, spesso anche questo in condivisione. Ma rimane il fatto che il posto letto costa fra i 180 e i 200 euro e senza reddito si perde. Chi si è rivolto a noi guadagnava il minimo necessario per pagare la mensilità”. Il restante 40% è invece rappresentato da stranieri ben integrati, incluse famiglie arrivate da tempo in Italia e a Milano per ricongiungersi con il coniuge arrivato per primo. Anche in questo caso, rimasti senza lavoro. Non basta. A completare il quadro, secondo i dati raccolti da Caritas Ambrosiana, si aggiungono oltre 600 richieste di sostegno per pagare l’affitto e le bollette. Un numero quadruplicato rispetto all’anno precedente. In questa categoria sono finiti anche molti italiani, in particolare giovani coppie.

Come mostrano i numeri, per strada finiscono soprattutto uomini. Le donne invece riescono a entrare con più frequenza nelle comunità e nelle reti di solidarietà. “Si tratta di persone che avevano ottenuto il diritto a entrare in Italia, con permesso di soggiorno. Mi ricordo un ragazzo, veniva da un Paese africano. Si guadagnava da vivere nel settore delle pulizie e integrava con alcuni lavori nel campo della sicurezza. Con la pandemia ha perso tutto e non ha più potuto pagare il posto letto nell’appartamento dove abitava con connazionali. Si è ritrovato per strada senza riferimenti, il circuito delle accoglienze era fermo e sotto stress. Ci ha chiesto aiuto, ma anche i nostri posti (di norma 64, poi ridotti) erano contingentati”, ricorda. Oltre al disagio di perdere lavoro e casa, spiega, c’è l’abbandono di un contesto di condivisione, con persone che spesso hanno una storia analoga e gli stessi obiettivi. Una chiusura pesante a livello psicologico.

Le famiglie finite in questa condizione sono in gran parte provenienti da Stati in esenzione visto, e più nuclei spesso condividono la stessa abitazione. “Mi torna in mente il caso di una famiglia sudamericana, composta da due genitori giovani e due figli in età scolare. Madre senza lavoro, padre impegnato nella ristorazione: lasciato a casa in pieno lockdown, senza tutele. Si sono rivolti a noi e abbiamo fatto il possibile. In generale, il nucleo familiare con bambini è un caso molto complicato da gestire. Per esempio, non si può mandare una famiglia con minori in una struttura di accoglienza sovraffollata e promiscua”, spiega.

Case perse nel peggiore dei casi, bollette troppo alte da pagare nei meno gravi. Ma c’è anche un’altra questione: “La povertà alimentare. Durante la quarantena molte famiglie ritrovatesi senza reddito ci hanno richiesto per la prima volta un aiuto per l’acquisto di cibo, perché non avevano abbastanza soldi per fare la spesa”. Alcune di queste famiglie sono le stesse che poi si sono ritrovate senza un tetto. Un fenomeno non nuovo, ma intensificato dalla pandemia: “Soprattutto, reso visibile. L’impatto delle città vuote e popolate da persone senza casa nei mesi del lockdown è rimasto sotto gli occhi di tutti”, conclude Di Iorio.

Ora c’è da affrontare l’emergenza freddo, che rischia di essere ancora più difficile dato il numero maggiore di persone in pericolo. “Sono uomini e donne di cui qualcuno si deve occupare. Dire che non dovevano neanche entrare non serve: ormai sono qui”, commenta a Ilfattoquotidiano.it Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana. “Un primo cittadino, una comunità – e aggiungo io – una comunità cristiana deve intervenire. Per farlo però servono progetti che vadano oltre il tempo delle prossime elezioni: non importa il partito, serve una politica capace di trattare questo tema per quello che è: un problema di tutta la comunità”.

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