Si è svolto a Roma, nell’area verde prospiciente il Verano, nel fine settimana dal 1° al 4 ottobre, il primo Festival dedicato alla questione palestinese, che ha registrato un grande successo, sia dal punto di vista della quantità e qualità della partecipazione popolare, specie giovanile, che da quello dei contenuti, sia quelli dei numerosi dibattiti che quelli degli spazi artistici e musicali.
La questione palestinese è di fondamentale importanza perché, come è solito dire il musicista ebreo Moni Ovadia, su di essa si misura la qualità dell’umanità nel mondo di oggi. Infatti, il modo nel quale il governo israeliano tratta i Palestinesi per me costituisce la negazione della loro umanità e quindi dell’umanità tout-court. Nulla di più sbagliato di vedere nel problema un conflitto tra israeliani e palestinesi, quasi che si trattasse di contendenti che combattono ad armi pari. In realtà da una parte abbiamo uno Stato equipaggiato coi più moderni armamenti e strumenti oppressivi e dall’altra un popolo inerme o che, al massimo, riesce a dotarsi di armamenti rudimentali.
La questione palestinese dura ormai da oltre settantacinque anni, da quando cioè i governanti europei, spinti dal senso di colpa per il tremendo genocidio cui avevano dato vita o al quale avevano comunque assistito passivamente, decisero di risolvere la questione ebraica riversando sul territorio della Palestina gli ebrei sopravvissuti. Non dubito che lo fecero nella piena consapevolezza di ignorare i diritti delle popolazioni originarie di quel territorio, quasi che si trattasse di specie animali o di esseri indegni di essere considerati alla stregua di esseri umani.
Un approccio poi perpetuato, a ben vedere, dai vari governi che si sono succeduti alla guida di Israele, fino alla proclamazione di quest’ultimo come “Stato ebraico” dove solo gli ebrei doc sono cittadini optimo jure mentre tutti gli altri (e parliamo di almeno un milione e mezzo di arabi nei confini israeliani, per non parlare dei tre e più milioni che vivono sui territori occupati) sono destinati a un’esistenza sostanzialmente priva di diritti. Un vero e proprio apartheid simile a quello sconfitto anni fa in Sudafrica dalla mobilitazione internazionale, come ha riconosciuto con grande onestà intellettuale l’ex ambasciatore israeliano nella capitale sudafricana.
Un intento di cancellare l’esistenza e la memoria stessa dei palestinesi che abbiamo purtroppo ritrovato anche in alcune reazioni, probabilmente isteriche, da parte di chi è giunto, senza senso del ridicolo, ad ingiungere addirittura al presidente del Consiglio Giuseppe Conte di vietare lo svolgimento del Festival, profferendo altresì infondate accuse di “antisemitismo”, che, dimostrando assoluta ignoranza del problema, i fautori del governo parafascista di Benjamin Netanyahu invocano contro chiunque protesti per le politiche di quest’ultimo.
Una situazione che non può continuare, senza mettere a repentaglio principi fondamentali per il diritto internazionale, già gravemente lesionati dal permanere per troppi anni di una situazione antigiuridica come quella derivante da un’occupazione militare illegittima a cui da troppo tempo le Nazioni Unite hanno chiesto inutilmente di porre termine.
Nonostante il tentativo di cancellare l’esistenza stessa della Palestina e dei palestinesi, magari trasformandoli nei beneficiari passivi di una qualche beneficienza elargita da regimi arabi reazionari e fondamentalisti, come quelli degli Emirati arabi uniti che hanno recentemente stipulato un accordo con Israele, la diaspora palestinese da un lato e il movimento di coloro che resistono all’occupazione nei territori, continua e si rafforza.
Il Festival ne ha costituito un’importante testimonianza, rappresentando al tempo stesso un momento importante d’incontro per la cittadinanza romana, cui è giunto l’importante patrocinio del Secondo Municipio, non senza inutili e speciosi polemiche attizzate strumentalmente da una parte del Partito democratico. Chi, come me, ha avuto occasione di frequentare il Festival, ha avuto del resto modo di arricchire le proprie conoscenze in materia e di constatare la vitalità di un movimento che comprende oggi non solo i palestinesi, ma anche molte altre persone amanti della pace e della giustizia, compresi, dentro i confini di Israele e fuori di esso, anche molti ebrei.
Il Festival ricorda, anche ai nostri politici a volte un po’ smemorati, che la questione palestinese va risolta concedendo pieni diritti a un intero popolo oggi assoggettato all’arbitrio più completo. I primi passi in tale direzione, come proposto dal senatore Giovanni Russo Spena, sono il riconoscimento ai palestinesi di esportare i propri prodotti senza mediazione israeliana, la cessazione della vendita delle armi e della cooperazione militare con Israele (l’Italia è il primo partner in questo senso), il rafforzamento della cooperazione con la Palestina e il riconoscimento dello Stato palestinese.
Occorre senza dubbio aggiungere a tale lista la possibilità per la Corte penale internazionale di procedere alla punizione dei crimini di guerra e contro l’umanità di cui sono stati imputati vari responsabili politici e militari israeliani, perché, come ben sappiamo, senza giustizia non può esserci pace duratura ed effettiva. La scommessa della democrazia, dell’uguaglianza, della pace e della convivenza può essere vinta, togliendo di mezzo gli ostacoli che, oggi, si chiamano Trump e Netanyahu.