La vicenda risale al 2013, quando Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, fu espulsa dall'Italia insieme alla figlia per poi rientrare alla fine dello stesso anno dopo mesi di feroci polemiche. I giudici del tribunale di Perugia hanno emesso una sentenza molto più dura rispetto alle richieste avanzate dalla procura. Per Cortese e Improta, all'epoca rispettivamente capo della Mobile e responsabile dell’ufficio immigrazione a Roma, è stata decisa anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici
Tutti condannati, con pene molto più alte rispetto a quelle richieste dai pm al termine della requisitoria di fine settembre. Al termine di otto ore di camera di consiglio, i giudici del tribunale di Perugia hanno stabilito la colpevolezza per tutti gli imputati nel processo Shalabayeva. La vicenda risale al 2013, quando Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, fu espulsa dall’Italia insieme alla figlia per poi rientrare alla fine dello stesso anno dopo mesi di feroci polemiche. L’allora capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese, ora questore di Palermo, e l’attuale capo della Polfer Maurizio Improta (all’epoca responsabile dell’ufficio immigrazione a Roma) sono stati condannati a 5 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. L’accusa aveva chiesto poco più di due anni di carcere.
Cinque anni anche per i funzionari della mobile Francesco Stampacchia e Luca Armeni, mentre gli agenti in servizio all’Ufficio immigrazione Stefano Leoni e Vincenzo Tramma sono stati condannati rispettivamente a tre anni e sei mesi di reclusione e quattro anni. Il giudice di pace Stefania Lavore, invece, è stata condannata alla pena di due anni e sei mesi. Per tutti gli imputati, ad eccezione di Lavore, è stato riconosciuto il sequestro di persona. Per una decina di capi di imputazione (dal falso ideologico, all’abuso e all’omissione di atti d’ufficio), invece, è stata decisa l’assoluzione.
Alma e Aula Shalabayeva furono prelevate dalla polizia dopo un’irruzione nella loro abitazione di Casalpalocco il 29 maggio 2013. Le forze dell’ordine in realtà cercavano il marito, ma dopo un velocissimo iter giuridico-amministrativo la donna e la figlia furono caricate su un aereo privato messo a disposizione dalle stesse autorità di Astana con l’accusa di possesso di passaporto falso. A luglio 2013, in seguito alle polemiche per l’operazione, si dimise il capo di gabinetto del ministero dell’Interno Giuseppe Procaccini (“Per senso delle istituzioni”). Secondo le ricostruzioni, aveva infatti incontrato l’ambasciatore kazako Andrin Yelemessov per parlare dell’oppositore Ablyazov. L’allora capo del Viminale Angelino Alfano, invece, fu oggetto di una mozione di sfiducia, poi respinta dal Parlamento. Shalabayeva e la figlia lasciarono il Kazakistan il 24 dicembre dello stesso anno per fare ritorno in Italia.
L’ipotesi della procura è che, all’epoca, gli agenti della Mobile ingannarono sia alcuni colleghi dell’Ufficio immigrazione della Capitale, sia i magistrati che diedero il via libera all’espulsione. Non solo: ci sarebbe stata anche la falsificazione dei documenti per velocizzare la procedura. Uno degli agenti coinvolti nel processo è Cortese, prima ex capo della Mobile di Roma e ora questore di Palermo. Un nome legato da anni alla Sicilia: c’era lui a capo della sezione catturandi l’11 aprile 2006, quando fu catturato il superboss Bernando Provenzano. Con i suoi uomini, ha scovato anche ricercati del calibro di Gaspare Spatuzza, Enzo e Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Benedetto Spera e Salvatore Grigoli.
“Nel mio Paese non sarebbe andata così”, ha esultato Shalabayeva dopo aver appreso la decisione del tribunale di Perugia. A riferirlo è stato l’avvocato Astolfo Di Amato, che l’ha rappresentata come parte civile nel processo. La donna oggi vive a Roma con i due figli piccoli e non era in aula quando è stato letto il dispositivo. Si è detta “molto colpita dall’indipendenza della giustizia che è uguale per tutti”. Il legale, invece, ha commentato: “E’ stata fatta giustizia ma nessuno degli imputati aveva un interesse personale in questa vicenda. Vuol dire che hanno obbedito a degli ordini e chi li ha dati l’ha fatta franca”.
Diversa la reazione del difensore di Improta, l’avvocato Ali Abukar Hayo: “Leggeremo le motivazioni e faremo appello come è giusto che sia. Qui si parla di un reato di sequestro di persona. Il problema per noi è il fondamento del fatto stesso. Noi riteniamo di aver dimostrato che non sussistono elementi del fatto così come ha ritenuto invece il Tribunale”, ha sottolineato il legale. “Molto deluso” si è detto anche l’avvocato Massimo Biffa, difensore di Stampacchia. “Gli imputati – ha sottolineato – sono tutti galantuomini, la punta di diamante della polizia. Bisognerebbe essere fieri di essere rappresentati da persone come loro”.