Nel quarantesimo anniversario della marcia dei quarantamila quadri Fiat – non di rado precettati dall’azienda – che diventò lo spartiacque nel conflitto sociale del nostro dopoguerra (14 ottobre 1980), il vostro blogger – dall’alto (o dall’abisso) delle sue 74 primavere “ricordanti” – vorrebbe misurare l’enorme divario tra il prima e il dopo. Operazione dichiaratamente finalizzata a esumare la matrice dell’ottusa e avida protervia dell’attuale Confindustria e del suo presidente Carlo Bonomi; imperterrito nelle reiterate “uscite” tra il ricattatorio e il minaccioso.
Infatti, quell’imponente manifestazione di quattro decadi fa, largamente enfatizzata dagli organi di informazione e interiorizzata dai modelli di rappresentazione della cultura politica prevalente, sancì la fine di un’epoca di conquiste del lavoro e avanzamenti democratici; ma che ormai involveva in un ribellismo anarcoide, perfino limitrofo alle tracce di sangue della violenza terroristica.
Così risultava irrimediabilmente perduto il diffuso sentire di quella “età dell’innocenza” che caratterizzò la stagione welfariana del dopoguerra anche nel Bel Paese (il compromesso tra borghesia produttiva e lavoro inquadrato sindacalmente, nello scambio tra l’accettazione dell’ordine proprietario a fronte della piena occupazione tendenziale); che dal punto di vista del comando d’impresa (imprenditoriale più che manageriale, stanti le dimensioni del nostro tessuto industriale) recepiva un orientamento radicato in tutto l’Occidente. Una sorta di “secondo spirito”. Con le parole dei sociologi della parigina École des hautes études en sciences sociales Luc Boltanski ed Ève Chiappello, “il secondo spirito del capitalismo […] si era costituito soprattutto come reazione alle critiche che denunciavano l’egoismo degli interessi privati e lo sfruttamento dei lavoratori. Esso testimoniava un entusiasmo modernista verso le organizzazioni pianificate e una prospettiva orientata alla giustizia sociale”.
Ricordo benissimo come in quella stagione – che ho definito “innocente” – uno dei temi ricorrenti, anche nei dibattiti e nei convegni promossi dal Movimento degli “under quaranta” di Confindustria (allora raccordo dei “giovani turchi” dell’associazionismo datoriale, oggi ridotto al Rotaract dei figli di papà), era “la funzione sociale dell’impresa”, mentre il profitto si giustificava come “misura di efficienza”. Era di moda contrapporre agli “shareholders” (azionisti) le esigenze primarie degli “stakeholders” (i portatori d’interesse, dai dipendenti alla cittadinanza, all’ambiente) e l’allora presidente di Confindustria Gianni Agnelli – vuoi per calcolo, vuoi per spleen – nel cosiddetto patto dell’Eur con la triplice sindacale sul punto unico di contingenza della scala mobile (1975) accettava il concetto di “salario variabile indipendente”. La breve stagione in cui si teorizzò “l’alleanza dei produttori” per la modernizzazione, all’insegna dello slogan “profitto e salario contro la rendita”.
Ma dopo quel 14 ottobre tutte queste velleità vennero cestinate, in linea con le nuove parole d’ordine in arrivo; che parlavano l’inglese/americano, in coincidenza con l’ascesa di Margaret Thatcher (1979) e Ronald Reagan (1981).
Il nuovo spirito del capitalismo, emerso dalle rotture, s’imponeva rifiutando il modello sociale pianificato e inquadrato dallo Stato; in cui il profitto si riduce semplicemente a una opportunità di accumulare ricchezza attraverso lo sfruttamento e l’emarginazione. Una scelta neppure lungimirante, visto che smarrisce il criterio base del precedente “spirito”: i ricchi hanno bisogno dei poveri per mantenersi ricchi in un mercato di massa. L’intuizione di Ford che aumentava i salari dei dipendenti perché fossero i primi acquirenti delle auto che avevano costruito.
Al di là dei giudizi morali, quanto oggi emerge è l’ottusità dei cosiddetti padroncini alla maniera di Bonomi: solo aumentando le capacità d’acquisto dei meno abbienti si potranno sostenere i consumi. Quel Bonomi, giurassico nella sua voracità acquisitiva, che non riesce neppure a capire quanto gli osservatori economici internazionali affermano a chiare lettere: è stato solo grazie alle robuste distribuzioni di risorse da parte dei governi (il nostro in testa) che si sono almeno in parte contenute le devastazioni non solo sociali ma anche economiche del Coronavirus.