L'INTERVISTA - Marco Rizzi, primario del reparto di Infettivologia dell'ospedale Papa Giovanni XXIII avverte:. "Credo che su Milano si debba stare molto attenti sulle misure restrittive perché il trend degli ultimi 15 giorni non è favorevole. Quello che farà la differenza sarà sapere gestire in modo intelligente la situazione sul territorio, aver il polso della situazione, individuare e ragionare sui casi al di là delle beghe politiche"
“Milano chiede. Milano sta chiedendo da diversi giorni una mano”. Ovvero posti letto, per ora pochi certo, ma in una riunione di ieri tra i dirigenti sanitari e la Regione Lombardia si è chiesto ai 17 ospedali lombardi Covid di metterne a disposizione un migliaio. E così all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo aspettano “l’onda”. Con la preoccupazione di chi la primavera scorsa ha dovuto far fronte a uno tsunami e anche con l’amarezza di chi, nei momenti più difficili, ha dovuto trasferire pazienti anche molto lontano: “Per noi è stato più facile far ricoverare persone in Francia e in Germania, in Puglia o in Calabria piuttosto che in Veneto o in Liguria o nella stessa Lombardia. E quell’eccesso di mortalità – 6700 decessi (nella sola provincia di Bergamo tra marzo e provincia, ndr) – è dovuto anche a quello. Persone a cui non è stato trovato un letto”. Marco Rizzi, primario del reparto di Infettivologia dell’ospedale di Bergamo in cui lavora del 1987 e con una sola settimana di ferie da inizio anno, spiega a ilfattoquotidiano.it che da alcuni giorni gli ospedali milanesi hanno registrato qualche difficoltà. Il motivo è semplice: da diversi giorni il numero dei contagi nel capoluogo lombardo sta crescendo. Ieri i positivi a Milano sono risultati 236, 440 nell’intera provincia. Il giorno prima 363 di cui 184 nel capoluogo. In assenza di “percorsi e misure selettivi” si rischia di essere travolti dall’onda. Non è una richiesta di zona rossa, ma qualcosa che ci si avvicina. Anche perché la lezione imparata proprio nella Bergamasca è che evitare o posticipare le misure “non protegge la comunità” ma provoca “disastri”
Dottor Rizzi, c’è un nuovo scenario rispetto a sette mesi fa?
Se lei mi chiede per Bergamo e provincia un qualche peggioramento nei numeri e dei dati rispetto ad agosto e settembre c’è, ma siamo in una situazione non allarmante, sicuramente governabile sia per quanto riguarda la gestione sul territorio che la diagnosi precoce e il tracciamento dei contatti, sia gestibile in ospedale per chi ha necessità di ricovero. Situazione decisamente migliore del resto della Regione e in particolare del Milanese e della Brianza e quella che c’è in altre parti del Paese, per non parlare del resto d’Europa e del mondo. Dove ci sono dinamiche diverse ma situazioni molto critiche e peggiori della primavera scorsa.
A cosa sono dovute queste differenze?
Ci sono aree in cui il virus ha circolato di più in inverno e primavera, dove abbiamo avuto una grande concentrazione di casi e dove abbiamo Comuni con percentuali superiore al 50 o 60 per cento. Non sappiamo quantificare quanto ci sia di effetto protettivo della pregressa infezione e degli anticorpi, ma una popolazione significativamente esposta come questa, in qualche misura, è meno permeabile alla diffusione del virus. Una qualche immunità c’è, rispetto ad aree geografiche anche lombarde e italiane dove il virus è circolato molto meno. Poi probabilmente, ma questa è solo una mia interpretazione, ci sono comportamenti che non sono uguali ovunque. Qui l’impatto con l’epidemia è stato grosso, quindi l’attenzione anche nei comportamenti forse è maggiore di quello che abbiamo osservato altrove.
Fuori da Bergamo la situazione è così diversa?
Il resto della regione sta facendo numeri importanti e quindi c’è una tensione anche all’interno del sistema sanitario regionale con la ricerca di soluzioni anche di ospedalizzazioni fuori provincia per pazienti milanesi o della Brianza avendo quelle aree saturate i posti al momento disponibili.
Quindi Milano vi ha chiesto aiuto?
Milano chiede. Milano sta chiedendo da diversi giorni una mano. Noi abbiamo qualche paziente. Abbiamo appena terminato una call con i direttori sanitari con la Regione e la richiesta è di dare un contributo importante in termini numerici. A ognuno dei 17 ospedali Covid è stato assegnato un contingente di posti da mettere a disposizione e quindi in qualche modo dovremo potenziare questa attività di ricovero per le aree che in questo momento sono più colpite. Nei vari ospedali si stanno facendo crescere i numeri di posti a partire dalle terapie intensive, sub intensive, e per i reparti di degenza straordinaria per le Malattie infettive, Pneumologia, Internistica.
Vi sono stati chiesti anche posti in terapia intensiva?
Bergamo deve dare – e sono stati già messi a disposizione – otto posti in terapia intensiva, 24 di sub intensiva, 58 di degenza ordinaria. Il criterio di ripartizione è basato sul totale di posti che si ritiene necessario divisi per i 17 hub, non è basato sulla demografia o sulla situazione epidemiologica locale. È una divisione fatta così, in modo automatico.
Dal suo osservatorio lo scenario generale è preoccupante?
I numeri sono cresciuti, c’è però una grande confusione sui tamponi: quanti positivi, quante persone da ricoverare e quante in terapie intensiva. Ora si fanno molti più tamponi, si intercettano casi dai contatti, magari persone asintomatiche e solo una piccola parte ha bisogno del ricovero o ha bisogno addirittura della terapia intensiva. Stiamo ragionando su dei numeri che hanno significato diverso rispetto ai numeri di febbraio e marzo quando si testava solo chi aveva una insufficienza respiratoria grave ed era indispensabile il ricovero urgente. I numeri che vengono dati ogni giorno non sono gli stessi numeri come significato: i 1000 casi di marzo non sono uguali a 1000 casi di oggi che hanno infezioni moderate o sono addirittura asintomatiche. Ovviamente ci sono persone che arrivano al ricovero e alla terapia intensiva. Ma non si possono fare paralleli, sono due realtà diverse. I numeri stanno aumentando comunque e sono necessarie misure restrittive ulteriori, calibrate sulle situazioni locali. Ed è un lavoro difficile, dal punto di vista tecnico e politico. Dire che le misure che servono oggi a Milano non servono altrettanto a Bergamo o in tutto il resto d’Italia è un po’ complicato. Ed è un po’ complicato prendere decisioni in maniera selettiva.
Quindi Milano dove dovrebbe diventare zona rossa?
Bisogna vedere cosa intende. Però se mi chiede se c’è bisogno di più cautele a Milano di quanto ce ne sia bisogno in Val Seriana rispondo di sì. Inutile adottare cautele rigorose a Selvino dove il 60 per cento delle persone è risultato sieropositivo. Lì probabilmente i disastri non succedono più. Nella città di Milano bisognerà essere più attenti. Faccio esempi grossolani, ma è un po’ quello che sta succedendo in varie regioni dove viene individuato un comune o un’area. Quello che sta succedendo anche in altri Paesi come Gran Bretagna o Spagna dove si identificano alcune parti di città o aree metropolitane. Questo è difficile ed è difficile gestire a livello di consenso e informazione, ma bisogna costruire percorsi selettivi. Non si può pensare che se va male in un paio di province si deve bloccare tutto il Paese o un’intera regione.
Cosa pensa del nuovo Dpcm?
Nell’insieme va bene. Si può discutere di qualche dettaglio. Il difficile è declinare localmente ed essere più rigidi. Sta alle autorità locali, regionali innanzitutto o comunali di prendere decisioni legate al contesto e di maggiore rigidità. Soffocare un focolaio sul nascere è facile, pensarci venti giorni dopo è molto più difficile.
A marzo mi disse: “C’è tanta gente che in ospedale non ci arriva”. In questi giorni ci sono studi e proiezioni sui danni collaterali del Covid sugli altri malati, quelli con altre patologie.
Stiamo raccogliendo i dati in modo un po’ frammentario. Le posso dire che nella Bergamasca nei primi sette mesi dell’anno abbiamo avuto 6700 morti in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il cosiddetto eccesso di mortalità. Questo dato è fatto di casi di Covid e casi di persone che possono essere morte per altre cause perché il funzionamento del sistema non era quello dei tempi normali. Noi abbiamo ricoverato circa 10mila persone per Covid, ma era la punta dell’iceberg se è vero che abbiamo comuni con percentuali del 50% di infetti e se è vero che abbiamo perso 6700 persone in più rispetto all’anno precedente. Sono numeri che dovremo analizzare, ma è chiaro che il problema è stato grande. Adesso siamo in condizioni di gestire la situazione al meglio per tutti. Ovviamente se i numeri crescono diventa più difficile. Se dobbiamo riconvertire tutto il reparto di Malattie infettive per il Covid con altre patologie faremo più fatica, ci sarà qualche ritardo. Inevitabilmente se si devono dedicare mille o 1500 posti in Lombardia ci saranno posti in meno per altre patologie. Alcune cose sono differibili senza particolari danni per la salute, ma da noi molto è stato rinviato e in qualche modo un prezzo sarà da pagare. Usciamo da mesi molto difficili che hanno provato popolazione, sistema sanitario e chi ci lavora e trovarsi ora sotto un’onda che magari non è quella di Bergamo, ma di Milano, ovviamente ci metterà un po’ in difficoltà. Lo siamo già. Non è una passeggiata.
In primavera eravate stati costretti a trasferire pazienti anche all’estero.
Per noi è stato più facile trasferire pazienti in Francia e Germania che in ospedali molto vicini. Eh sì, da noi un po’ amaro in bocca è rimasto. In Veneto e Liguria non abbiamo mandato neanche un paziente, Piemonte due, nel resto della Lombardia pochissimi. Abbiamo però mandato in Puglia, Calabria. Ognuno voleva difendere il suo perimento e la Lombardia, Milano. E adesso che la grande Milano è in difficoltà ora bisogna mandare i malati di Milano altrove, ma i nostri malati a Milano ci sono arrivati davvero poco. Dentro quei 6700 morti ci sono anche morti perché nessuno li ha voluti. Anche nella Regione.
Teme un’onda o un tsunami da Milano?
Credo che su Milano si debba stare molto attenti sulle misure restrittive perché il trend degli ultimi 15 giorni non è favorevole. Quindi se non si controlla la situazione sul territorio a Milano gli ospedali faranno quello che possono fare nel Milanese, poi arriveranno a saturazione e poi arriveranno da noi che metteremo a disposizione i nostri 90 posti e dopo se non basteranno 90, saranno 180 e progressivamente spegneremo altre attività: è così che funziona. Se non si controlla la situazione sul territorio a Milano, Brianza, dove i numeri sono cresciuti di più, se dobbiamo assorbire l’onda di una situazione critica nel Milanese questo può diventare un problema, abbastanza grosso. Nel mio staff ho persone in difficoltà all’idea di dover ripartire. I miei medici hanno fatto migliaia di ore di straordinari né pagati né recuperati, una follia. Faccio fatica a motivare le persone che devono cominciare a correre. Speriamo che in Regione si trovi un equilibrio, che consenta a tutti di restare in piedi.
Scuole. La ministra della Istruzione dice che devono rimanere aperte.
I protocolli mi sembrano vengano applicati in modo molto rigoroso. Non c’è evidenza che ci sia un problema e direi che il modello adottato in Italia è molto cauto. Mi preoccupo più dei mezzi pubblici e di quello che succede al di fuori della scuola.
In questi giorni si discute molto dei 20-40enni ora più colpiti.
Il problema è dove andiamo a cercare. Stiamo facendo un’altra cosa. Non si facevano tamponi sul territorio, né al pronto soccorso se non a chi doveva essere ricoverato e si ricoverava solo chi era in grave insufficienza respiratoria in primavera. In ospedale arrivavano anziani e persone con patologie perché i giovani stavano a casa loro magari con un po’ di febbre. Il messaggio era se avete la febbre e la tosse ma respirate, state a casa vostra. Non trovavamo i giovani perché non li cercavamo. Costruire un ragionamento sul fatto che adesso si infettano i giovani è senza senso.
Tutti aspettano il vaccino.
Con un vaccino sicuro ed efficace faremo un grosso passo avanti per poter controllare l’epidemia che non è un passo banale sui grandi numeri. Quello è uno strumento, ma bisogna credo depotenziare questa idea che arriva il vaccino e va tutto a posto. Non succede da un giorno all’altro, ma nemmeno da un mese all’altro. Succede nell’arco di molti mesi. Stiamo a discutere della difficoltà di avere a disposizione il vaccino antinfluenzale che non è una tecnologia odierna, ma è a disposizione da decenni però quando poi si fanno i conti con la produzione, la richiesta e la somministrazione… Chi vende questa cosa deve vincere le elezioni presidenziali tra 15 giorni. Quello che farà la differenza sarà sapere gestire in modo intelligente la situazione sul territorio, aver il polso della situazione, individuare e ragionare sui casi al di là delle beghe politiche. Qui abbiamo imparato che rinviare le misure quando sta succedendo qualcosa non protegge la comunità, ma fa disastri e bisognerebbe che, adesso che il problema è da qualche altra parte, sapere prendere decisioni selettive adeguate. È più facile dire fermiamo tutti allo stesso modo, ma è sbagliato. Reggere sul lungo periodo è difficile con misure indiscriminate.