Il centro studi di Mediobanca fa i conti in tasca ai colossi del web. Sia a livello globale, sia per quanto riguarda nello specifico le attività italiane. Sebbene non sia una novità, continua a colpire l’esiguità dell’importo versato al fisco da multinazionali che contano su un giro d’affari di oltre mille miliardi di euro l’anno e con profitti che nel 2019 hanno raggiunto i 146 miliardi. L’analisi prende in esame i primi 25 gruppi internet al mondo (le cosiddette “web soft”) ma la metà dei ricavi è riconducibile ai primi 3: Amazon, Alphabet (ossia Google) e Micorsoft. A queste tre società fanno capo rispettivamente la metà di tutte le vendite on line, la metà dei ricavi da servizi internet, e la metà del mercato dei softwares. A testimonianza di un mercato che va sempre di più concentrandosi, con i primi 5 gruppi ormai in una sorta di “iper uranaio”.
In Italia queste società realizzano ricavi per 3,3 miliardi di euro ma nel 2019 hanno pagato in tasse soltanto 70 milioni di euro. A versare di più, si fa per dire, è stata Amazon con 10,9 milioni a fronte di un fatturato di 1 miliardo di euro. Le tasse, naturalmente, si calcolano sugli utili e non sui ricavi ma queste società non rendono noto come sono suddivisi i profitti nei diversi paesi. Il dato sul fatturato fornisce in ogni caso un’indicazione dimensionale. Attraverso operazioni tra filiali domiciliate in diversi stati questi gruppi riescono infatti a spostare gli utili nei paesi dove il prelievo è bassissimo o inesistente. Con queste tecniche definite di “ottimizzazione fiscale” i big di internet sono riusciti a sottrarre al fisco tra il 2015 e il 2019 qualcosa come 46 miliardi di euro. Tornando all’Italia il secondo contribuente risulta essere Microsoft con 16 milioni di euro, seguita da Sap (10,5 milioni), Google (5,7 milioni). Appena 2,3 milioni le tasse pagate da Facebook. Per E-bay si scende a 145 mila euro. Ha dell’incredibile il dato di Netflix: 6 mila euro, meno di un operaio. Le concorrenti cinesi, molto meno presenti in Italia ma con fatturati importanti e in crescita (si pensi ad Alibaba), dimostrano di aver imparato molto bene i trucchi del mestiere dalle rivali statunitensi o europee. Tutti i gruppi cinesi hanno infatti sede fiscale alle isole Cayman.
Una crescita dieci volte superiore all’industria tradizionale – Il rapporto di Mediobanca evidenzia anche quanto sia sostenuto il ritmo di crescita di questi gruppi. Nel quinquennio analizzato il fatturato è salito del 118% a fronte del + 10% delle industrie tradizionali. I profitti sono cresciuti del 24% contro il modesto + 0,6% della grande manifattura. Coerentemente l’occupazione è salita del 90%, oggi lavorano per i primi 25 gruppi web 2,2 milioni di persone nel mondo. Quasi la metà fa capo al solo gruppo Amazon. La pandemia ha spaccato in due anche il mondo internet. Nei primi sei mesi del 2020 i ricavi delle le vendite on line sono saliti di oltre il 30%, le fintech (servizi bancari e finanziari) hanno incassato il 26% in più dell’anno prima, i servizi cloud fanno + 22%. Al contrario sono scesi i ricavi di servizi legati alla mobilità – 22% e di prenotazione di viaggi o affitti brevi (- 50%). Le prime 25 società internet al mondo possono contare su una liquidità di 588 miliardi di euro, per lo più investiti in asset sicuri come titoli di Stato o obbligazioni ad alto rating statunitensi. Il tesoro più ricco è quello di Microsoft, circa 120 miliardi di euro. Seguono Google (107 mld), Amazon (63 mld) e Facebook (51 mld).
Notizie positive arrivano dall’impegno ambientale di questi colossi, sebbene con luci ed ombre. Nel 73% dei casi le emissioni di Co2 per dipendente risultano in calo. Ma se ci sono gruppi molto virtuosi come ad esempio Facebook che nel 2019 ha quasi dimezzato il suo impatto in termini di gas nocivi, altrettanto non si può dire per Microsoft (+ 30%) o Google (+ 7%). In calo di circa il 3% il dato di Amazon.
Attendendo Washington e Bruxelles – Il potere crescente dei giganti web è da tempo oggetto di indagini e preoccupazione da parte della autorità statunitensi ed europee. La scorsa settimana un rapporto del Congresso Usa ha elencato una lunga serie di comportamenti nocivi per la concorrenza e i consumatori messi in atto da Amazon, Google, Apple e Facebook auspicando interventi che spezzino posizioni monopolistiche ormai consolidate e inscalfibili dalla concorrenza. A sua volta l’Unione europea starebbe lavorando a una regolamentazione più severa per questi colossi con la possibilità di imporre cessioni di divisioni o controllate. L’Ocse sta faticosamente cercando di mettere a punto le linee guide per una tassazione coordinata a livello globale che consenta di limitare i comportamenti di elusione fiscale.