Per chi come me segue da anni il fenomeno dello sfruttamento del lavoro dovuto alla crescente innovazione tecnologica, il riconoscimento dei diritti dei rider Uber in qualità di lavoratori dipendenti è qualcosa di incredibile. Il fenomeno sembra inarrestabile ed ha una portata mondiale, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Francia alla Spagna, fioccano le proteste degli autisti Uber affinché siano considerati dipendenti e non autonomi, il che, com’è ben noto, in lavori standardizzati come questo garantisce maggiori diritti e retribuzioni più alte.

In Italia la situazione è più complessa, la Cassazione (sentenza n. 1663/2020, su un caso non Uber) ha di recente stabilito che quel che conta non è tanto se questi lavoratori possano essere qualificati come dipendenti, ma che ad essi possano essere estese le tutele del lavoro subordinato in virtù di una norma del Jobs Act, che prevede l’estensione dei benefici del lavoro subordinato alle collaborazioni coordinate e continuative, che presentano determinate caratteristiche, tipiche appunto del lavoro dipendente.

Nel resto del mondo le vertenze sono sfociate in importanti sentenze della magistratura – dall’Alta Corte Spagnola o la Corte di Cassazione francese –, che hanno dato ragione ai lavoratori, riconoscendo che si tratta di lavoro dipendente, quindi con un taglio più netto rispetto ai giudici italiani, tenendo però conto che oggetto di giudizio possono essere casi concreti che presentano caratteristiche differenti.

Per chi ha un minimo di conoscenza di come funziona il lavoro degli autisti della nota multinazionale, non è difficile comprendere le ragioni dei giudici che hanno sancito che si tratta di lavoro dipendente, e questo dovrebbe aiutarci a riflettere su quanto il mito della tecnologia che migliora la qualità del lavoro di chi lo presta sia stato sopravvalutato.

La Corte francese (sentenza 4 marzo 2020) ha ribadito che un autista di Uber non potrebbe mai essere autonomo nello svolgimento del suo lavoro, poiché la sua mansione è eterodiretta dall’azienda mediante l’uso dell’applicazione che filtra i clienti, non consente all’autista di fissare il prezzo e stabilisce a monte le modalità di svolgimento del servizio.

La tecnologia che processa rigidamente il lavoro secondo le direttive poste a monte dal datore di lavoro, insomma. Nulla di più, nulla di meno. Quel che stupisce, è come mai fenomeni di precarietà di questo tipo siano rimasti quasi indenni per tanti anni, visto che quello degli autisti tecnologici non è certo il primo caso. L’esempio più eclatante è quello dei call center.

Forse qualcuno lo ricorderà, ma all’inizio del nuovo millennio gli operatori avevano iniziato a protestare contro le paghe misere, dovute principalmente alla possibilità concessa alle imprese di poterli considerare autonomi. A parte qualche tentativo di regolamentazione come la circolare Damiano del 2007, poi di fatto cestinata, il problema dell’assurdità di considerare come autonomo un operatore di call center è stato rimosso dalla memoria collettiva.

Ma la questione è la medesima dei rider: il lavoro che viene rigidamente determinato e processato dai sistemi tecnologici come può essere considerato autonomo? Sull’importanza del lato oscuro della tecnologia applicata al lavoro, moltissimi lavoratori hanno fatto ricorso ai giudici.

Seguo molte vertenze incentrate sull’uso della tecnologia, e posso dire che su fenomeni come le cessioni di ramo d’azienda la magistratura è pressoché unanime nel ritenere che quando una grande azienda cede un’attività e un gruppo di dipendenti senza trasferire anche la tecnologia necessaria per farla funzionare, la cessione non può essere considerata legittima, per il semplice fatto che i lavoratori trasferiti continuano ad essere in concreto integrati nell’organizzazione di chi li ha ceduti.

Per lo stesso principio, altre vertenze sono invece incentrate sul fenomeno dell’interposizione di manodopera, e di recente moltissimi lavoratori vi hanno fatto ricorso, non solo quelli provenienti dal settore dei call center, ma anche dal mondo bancario e delle telecomunicazioni.

E’ ancora presto per trarre delle conclusioni. E’ certo però che se chiedete ad uno di questi lavoratori cosa rappresenta per loro la tecnologia applicata al lavoro, la risposta sarà molto meno idilliaca di quella generalmente presentata nel dibattito pubblico da chi, forse, non ha mai vissuto ciò di cui parla.

Prima degli autisti tecnologici, quindi, molte altre categorie di lavoratori hanno provato (e stanno provando) a mettere in luce l’assurdità di considerare autonomi coloro che eseguono lavori che sono totalmente dipendenti da strumenti tecnologici, quali i software applicativi ovvero le cosiddette applicazioni (app), che altro non sono che la messa in pratica di direttive di lavoro e forme di controllo provenienti da chi li governa.

Spesso è il datore di lavoro formale (o il committente), ossia colui che assume direttamente il personale, come nel caso degli autisti. Altre volte, invece, chi detiene il potere sull’organizzazione del lavoro per il tramite della tecnologia sono le grandi aziende che esternalizzano i lavoratori.

Proprio in tema di caporalato, di recente il Tribunale di Milano ha emesso un provvedimento contro un caso di caporalato proveniente da una società italiana di Uber, Uber Italy, dove è stato rilevato che i lavoratori venivano sottoposti a condizioni degradanti, pagati a cottimo 3 euro a consegna, privati delle mance e sottoposti a punizioni anche con il blocco arbitrario dell’account. Un clic e sei fuori.

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