Non so se vi è capitato di leggere in questi giorni, dopo l’assegnazione del Nobel per la pace al Programma alimentare mondiale (Pam) dell’Onu, che la crisi post-covidica avrebbe prodotto l’effetto povertà per 265 milioni di persone in più. Il tema sociale sta prendendo decisamente il sopravvento sull’emergenza ambientale. L’opinione corrente e radicata che a prendersi cura del pianeta e del sistema ecologico siano soprattutto i benestanti oggi purtroppo trova sempre nuove conferme.
Lo stesso Nobel appena assegnato al Pam, per esempio, è stato salutato a livello mediatico con la sottolineatura che gli accademici svedesi hanno preferito scartare l’ipotesi d’insignire dell’onorificenza Greta Thunberg, che era considerata la favoritissima candidata pre-pandemia.
Fino a ieri una certa insofferenza nei confronti degli ecologisti militanti sembrava la bandiera dei moderati e delle destre, ora si sentono forti e chiare tanti voci critiche di segno post-marxista. Riviste militanti e di nicchia come Jacobin e Le Monde diplomatique ospitano volentieri corposi saggi di stroncatura delle nuove mode culturali verdi, come il recente intervento di uno dei maestri della sociologia critica francese, Franck Poupeau, contro quelli che pretendono d’estendere l’antropologia alla natura, cantando la profondità dell’anima delle foreste.
E poi basta anche solo scorrere un po’ di commenti a molti interventi nella sezione Ambiente&Veleni de ilfattoquotidiano.it, per esempio ai post che denunciano le forme più distorte del “distrut-turismo”, per notare come “ambientalismo da ricchi” sia diventato uno slogan spregiativo molto diffuso. Il primo colore classico della formazione dell’immagine televisiva, il più visibile Red, in versione rosso-vergogna, è saltato subito agli occhi di molti osservatori che scrutano la presunta svolta al Green&Blue dei grandi poteri economici, per dirla con il logo della prima nuova iniziativa di “Stampubblica”.
Questo genere d’obiezione pauperistico-classista nei confronti delle sensibilità ecologiche e dei comportamenti ostentatamente virtuosi dei ricchi finisce addirittura per esaltarsi di fronte a certe occasioni più quotidiane, che siano il menù stellato a chilometro zero, l’orto biodinamico o il sapone artigianale naturale, per non dire delle sacrosante polemiche contro i bolidi a motore elettrico.
In ballo a volte ci sono questioni indubbiamente complesse: pensate anche solo alla passione con cui molti di noi cittadini si schierano in difesa dei grandi carnivori reintrodotti in ambiente, che siano i lupi o gli orsi, mentre anche da un fronte pur schiettamente ecologista, come quello dei “ruralisti alpini”, si dà molto più ascolto alle obiezioni di chi deve convivere con questi animali selvatici (persino nell’ultimo referendum svizzero sulla caccia è stato il voto delle città “a salvare la pelle ai lupi”, come hanno scritto i giornali). Già, ogni problema andrebbe trattato a parte, approfonditamente.
Sul piano generale, comunque, la crisi post-covidica dovrebbe insegnarci quanto siano proprio i comportamenti socialmente irresponsabili della fasce ricche della popolazione a incidere sulla vita di tutti e soprattutto dei più deboli, moltiplicando le diseguaglianze. A Greta e ai ‘gretini’ non si possono preferire i cretini di Creta (intesi come i croceristi tedeschi bloccati per la quarantena dopo l’esplosione di un focolaio nella prima nave da crociera riaffacciatasi nel Pireo), piuttosto che gli untori da “Covìda” in Costa Smeralda o a Cortina.
Meglio rimettere bene in chiaro i concetti, prima che qualcuno si faccia incantare da queste nuove forme di qualunquismo. Va bene smascherare il greenwashing dei soliti noti, e siamo stati in prima fila a denunciarlo (vedi anche solo il numero ad hoc di Millennium), ma prima di disprezzare come “ambientalismo da ricchi” le idee e i comportamenti degli altri, soprattutto se a muoverci rischia di essere soprattutto una sorta d’invidia al quadrato, è sempre meglio tirare bene il fiato. Almeno finché il virus ce lo consente.