“Ci auguriamo tutti che non debba ripetersi perché la presenza del familiare anche se distanziato da un plexiglass, piuttosto che da una porta, ma comunque potendosi vedere, è riuscita a compensare un po’ i vissuti di abbandono e di solitudine di quando c’è stato il lockdown e si era dovuto chiudere”. Non ha dubbi la dottoressa Francesca Nota, psicologa genovese esperta di formazione degli operatori sociosanitari e di riabilitazione e potenziamento cognitivo, con un’ampia esperienza di collaborazione con le Rsa, le residenze sanitarie assistenziali per anziani. L’augurio è che “le strutture che hanno la possibilità di farlo in sicurezza continuino a permettere gli incontri perché il rischio che una nuova chiusura, un allontanamento degli affetti, crei un ulteriore disagio in una situazione di cui gli individui portano ancora le ferite e di cui la cicatrice non è sufficientemente consolidata”, spiega a ilfattoquotidiano.it nelle ore in cui alcune Regioni o comuni o singole strutture hanno deciso di chiudere ai parenti le porte delle case per anziani come soluzione al crescente numero dei contagi.
Cosa potrebbe portare una nuova esclusione dei parenti dalla vita degli ospiti delle Rsa?
C’è una ferita ancora aperta rispetto ai recenti vissuti di abbandono e di solitudine, mi auguro che non si debba arrivare a un nuovo trauma, che sarebbe molto pesante da tollerare su un tessuto estremamente fragile e delicato che non ha ancora elaborato quello che abbiamo appena passato. Anche per gli operatori, ma soprattutto per gli ospiti che non hanno capito, non hanno elaborato quello che è successo prima e rischiamo che i peggioramenti che ci sono stati rispetto ai loro comportamenti aumentino. Almeno, se dovesse esserci una situazione di nuove chiusure, spero che si possa ragionare rispetto a un intervento che possa prevedere una presenza in più e possa essere di aiuto sia agli ospiti che agli operatori.
Cosa avete trovato, quando le porte si sono riaperte all’inizio dell’estate?
Il cambiamento ha stravolto tutte le modalità del prendersi cura. Una persona con un buon equilibrio psicofisico di fronte a un evento inaspettato, imprevisto, sconosciuto e di questa portata, deve trovare nuovi punti di riferimento e provare ad adeguarsi a questo cambiamento. Questi pazienti fragili non hanno modo di elaborare in modo cognitivo consapevole quello gli succede, anche se gli operatori si sono dati da fare per dare delle spiegazioni che fossero accettabili e comprensibili, per trovare nuove modalità di non farli sentire soli e abbandonati, attivando tutto quello che era possibile fare per evitare eccessivi scompensi perché da un giorno con l’altro si è dovuto chiudere le strutture a parenti che erano una presenza costante, quotidiana, importante e continuativa. Una persona senziente e capace di elaborare quello che le succede, prova a trovare delle compensazioni e delle strategie. Persone cognitivamente compromesse non hanno modo di esprimere il disagio con l’eloquio, allora lo fanno con un peggioramento dei loro disturbi del comportamento: una maggiore ansia, una maggiore aggressività, una maggiore apatia…
Quindi sarebbero cambiamenti reversibili?
Bisogna avere sempre presente che un cambiamento nel comportamento non dev’essere sempre ricondotto ad un aggravamento della malattia, ma può avere un’eziologia emotiva di un disagio, un disturbo, un trauma male assorbito e male riorganizzato nel suo sistema che emerge e in tutta la sua gravità anche in un tempo successivo. Il rischio è che noi interpretiamo questi sintomi in una maniera non corretta, intendendoli come un peggioramento della malattia. D’altro canto certe volte mi viene da chiedere: a che pro sopravvivere da un punto di vista fisico se poi viene a mancare l’aspetto emotivo, relazionale, familiare e di sostegno che prima era intervenuto a sostenere il paziente in struttura e venendo meno quel sostegno invisibile, ma fondamentale, rischia che crolli tutta la struttura della persona? Leggo che alcuni ospiti si sono lasciati morire, che il vuoto vissuto è stato talmente forte che non c’è stato niente che sia stato in grado di compensare questa mancanza. Lo hanno fatto inconsapevolmente, mancava quel fuoco che li ha sostenuti.
Cosa si è fatto e si può fare?
Si fa tanto, tantissimo, si cerca di essere quella presenza che cura e che, al di là della terapia, l’esserci, l’ascoltarli, il restare lì di fronte ai loro timori, ai loro eccessi aggressivi, al loro senso di inutilità rispetto a se stessi e rispetto alla vita che per loro non ha più senso, lo stare lì ad accoglierli, ascoltarli, fare una presenza di cuore, questo è già un buon supporto e un buon aiuto…
E come è andato a chi si è trovato anche a sostituire i parenti?
L’operatore socio sanitario si è sentito nella morsa di dover mantenere delle tempistiche e un’operatività di un certo livello, portandosi sempre dietro un carico emotivo di paura di ansia e di responsabilità rispetto a quello che stava succedendo. Questo soprattutto all’inizio, quando non si conoscevano le modalità con cui il contagio prendeva piede e li faceva sentire responsabili rispetto a questo aspetto. Un peso che è stato portato in solitudine, perché spesso purtroppo le tempistiche di questo tipo di lavoro impediscono un confronto tra colleghi con uno spazio di ascolto e uno dedicato alla loro espressione del disagio, della paura e di tutto quello che possono essere delle componenti che impediscono loro di essere presenza che cura, perché devono fare delle cose pratiche: vorrebbero fare anche di più ma sono sottoposti a delle tempistiche che loro vivono in maniera molto stressante. In pratica si trovano tra due fronti: l’ospite con i suoi bisogni e le richieste dell’amministrazione, ma la loro voce chi l’ascolta? Adesso, se non si è fatto un percorso di elaborazione di accettazione e non si sono imparate buone pratiche, si rischia che quello che è stato sommerso riemerga in tutta la sua prepotenza. Mi auguro che tutto quello che si è vissuto sia stato sufficientemente rielaborato per tollerare i colpi di una seconda ondata se ci sarà.