Pluri-vincitore ad ogni festival a cui ha partecipato, tra cui per la miglior regia di documentari al Sundance, e in programmazione oggi anche alla Festa del Cinema di Roma con l’uscita contemporanea su Amazon Prime, Time appartiene a quegli oggetti rari che pongono il cinema in parallelo al trascorrere della vita
Time, il tempo della nostra vita, così come il cinema dovrebbe raccontarla. E’ un’autentica folgorazione la visione di Time della regista newyorkese Garrett Bradley, un documentario che racconta del binomio resilienza/resistenza nel dinamismo della lotta costante come raramente è capitato di incontrare. Pluri-vincitore ad ogni festival a cui ha partecipato, tra cui per la miglior regia di documentari al Sundance, e in programmazione oggi anche alla Festa del Cinema di Roma con l’uscita contemporanea su Amazon Prime, Time appartiene a quegli oggetti rari che pongono il cinema in parallelo al trascorrere della vita, come aveva fatto ad esempio Richard Linklater con il supremo Boyhood.
In questo caso, però, non è la volontà del cineasta Bradley a “filmare la vita che passa”, bensì nasce da quella della protagonista Fox Rich che decide di filmare se stessa e i suoi 6 figli per donare a suo marito Rob, incarcerato con sentenza fino a 60 anni, la partecipazione del tempo perduto. Una sorta di diario audiovisivo di proustiano valore per chi forzatamente ha smarrito gli anni più preziosi della vita famigliare. Ed è chiaro che Rob sia in prigione per una condanna sbagliata, quanto meno esagerata al netto di un reato per la rapina di una banca (a causa dell’estrema povertà) peraltro condotta insieme a Fox, che tuttavia ha trascorso pochi anni di galera. Una storia, quella dei coniugi di New Orleans, come tante ne accadono negli USA, specie quando al centro c’è la comunità Afro-americana.
“La mia storia – scrive Fox – è la storia di oltre 2,3 milioni di cittadini americani imprigionati perché troppo poveri o di colore”. Ma se è vero che la vicenda dei Rich sia sintomatico-emblematica delle sofferenze di tanti loro concittadini, altrettanto non si può dire dello stile che informa il film, così unico e rarissimo nella sua fluidità narrativa nonostante sia il risultato di un patchwork fra homemovies d’archivio e nuovi girati, monumento di montaggio sapiente (un applauso all’editor Gabriel Rhodes) guidato da una regia brillante e appassionata, mai formalista, al contrario profondamente coerente nel dare la forma giusta al contenuto prescelto. Nel naturale bianco&nero dell’antico girato, Time parte con la gioia della gioventù, dell’amore nascente e del matrimonio di Fox e Rob per chiudersi con la liberazione di lui attraverso un calvario mai auto-compiaciuto da parte di lei, che cresce i figli da sola per almeno 20 anni: non capiamo esattamente tutto quanto accade ma presto ci accorgiamo che la comprensione è meno rilevante dell’emozione “instant” delle scene di vita realmente vissuta a cui stiamo partecipando, fra gioie e dolori, fra amore e disperazione.
Ellissi temporali, diversi flashback, alcuni flashforward.. tutte le strategie della sintassi audiovisiva si coordinano mirabilmente per descrivere il tempo che passa, che torna, che si reitera e viene così ricordato, perché al cuore tematico c’è la necessità di fissare la memoria del passato nel flusso emozionale del presente affinché venga costruito un futuro migliore, il futuro delle nuove generazioni della famiglia Rich. Time è un’opera complessa perché mette in scena la complessità del vivere, ed è anche uno straordinario esempio di cinema radicale, testimonianza “concreta” di quanto il mezzo audiovisivo sia chiamato a fare per sua natura: registrare il momento, riempire il vuoto attraverso riproduzione del ricordo, tutelare la Memoria. La scommessa quasi vinta è che Time trionferà ai prossimi Oscar nella categoria dei documentari.