A Roma a distanza di oltre due mesi dalla ricandidatura di Virginia Raggi non esiste un candidato a qualcosa e nemmeno un percorso chiaro e lineare per definirlo a sinistra come a destra; ma si moltiplicano i candidati al nulla e/o all’autopromozione mediatica, in un cinepanettone di cui solo i partiti potevano essere produttori, registi e interpreti.

In poco tempo si è assistito ad uno sconcertante cambio di scena, anche se lo spettacolo rimane sostanzialmente avvilente. Dall’allarme e l’irrisione per la ricandidatura, “la seconda ondata” per citare la definizione lievemente sinistra di quel gentleman di Carlo Calenda, uniti a una fuga generale di tutti i candidati politicamente spendibili e papabili, si è passati ad un affollamento di improbabili e pittoresche figure che includono “volti televisivi” e sgomitanti rappresentanti semisconosciuti della politica locale.

E non poteva mancare nemmeno Vittorio Sgarbi che ha già nome e simbolo collaudato, il suo Rinascimento con capra e un glorioso e coerente passato di disprezzo nei confronti di Virginia Raggi, “un’incapace telecomandata da Grillo, così come Ambra Angiolini con Boncompagni”.

L’imperdonabile “oca del Campidoglio” che “sfrontata ed imperterrita si ricandiderà sulle macerie della sua sindacatura”, per sintetizzare il tenore delle valutazioni più ricorrenti sulla cosiddetta grande stampa, ha voluto avere quella seconda chance scontata per qualsiasi suo collega ma non per lei. E con una mossa prevedibile ha messo a nudo come i due schieramenti, ritornati protagonisti di un bipolarismo ancora da verificare, siano totalmente impreparati ad espugnare Roma secondo gli annunci del Salvini pre-Papeete o a preservarla dalla “minaccia Raggi” come si era riproposto Zingaretti.

Nel centrodestra – dove sia la Meloni, che stando ai sondaggi di Euromedia Research si attesterebbe ad un ragguardevole 44,6%, sia Salvini si guardano bene dall’andarsi a bruciare come candidati sindaci per la capitale e non avendo nessuno dei due nomi particolarmente appetibili da lanciare – avrebbero sondato Massimo Giletti, attestato sempre secondo la stessa rilevazione al 31% e non del tutto insensibile alla proposta.

Ma sul fronte romano è il Pd che in modo abbastanza analogo a quanto ha fatto con il referendum sul taglio dei parlamentari, quando in Parlamento si è schierato tre volte per il No per votare Sì solo in extremis e in campagna elettorale è stato per il Ni quanto più ha potuto, si trova in una situazione alquanto ingarbugliata – come spesso avviene ai limiti del paradossale a causa della connaturata propensione all’incoerenza e al tatticismo.

Gli ultimi aggiornamenti sulle candidature usciti dall’incontro di Pietralata che avrebbe dovuto definire programma e percorso del centrosinistra per “la rinascita della Capitale” rimangono sul vago e registrano, secondo le parole del segretario del Pd romano, la nascita di “un coordinamento del centrosinistra che deve convogliare tutte le energie e le idee per un percorso politico finalizzato al riscatto della città”: il tutto recepito nel manifesto “Roma del Futuro”.

Naturalmente non si sarebbe parlato di nomi e soprattutto, pare di capire, di quello più pesante, invadente, catalizzante e respingente, cioè quello di Carlo Calenda che, sempre stando ai sondaggi odierni di Euromedia e quindi lontanissimi dal voto, si attesterebbe oltre il 20% con qualsiasi ipotetico candidato del centrodestra.

Ma la supposta forza del candidato Calenda, ovviamente amplificata da giornaloni ed establishment che il Pd usa come decisiva arma anti-Raggi, andrebbe commisurata con non poche né irrilevanti controindicazioni. Non solo l’uomo è tracotante e supponente, orgogliosamente fuori dal Pd che ha infamato per l’alleanza di governo con il M5S e tuttora siede al parlamento europeo, dove non lo vedono molto spesso dato che risulta quartultimo per presenze tra gli italiani. Ma è anche prevedibilmente allergico alle primarie prenatalizie, sempre che si facciano, e indisponibile a mettersi sullo stesso piano dei “sette nani” saliti a nove, ovvero gli aspiranti candidati rimasti dopo che hanno detto “no, grazie” Letta, Gualtieri, Sassoli, Gabrielli, D’Alema e altri, insensibili all’appello di Zingaretti.

A questo punto sembra abbastanza chiaro che Calenda, anche se non ha sciolto formalmente la riserva, intenda scendere in campo come liberatore della sua città, confidando nella benevolenza mediatica e dei “poteri forti” oltre che nell’endorsement materno molto tempistico da Otto e mezzo. E pare altrettanto chiaro che Zingaretti, a corto di candidati spendibili, cerchi di usarlo per indurre Di Maio a togliere il sostegno a Virginia Raggi, mossa altamente sconsigliabile se non potenzialmente rovinosa per il M5S alla vigilia degli Stati Generali in un clima tutt’altro che sereno.

Ma non è per niente detto che per il Pd puntare su un fuoriuscito che ha già sbattuto la porta e se ne infischia delle sue primarie già annunciate sia una mossa particolarmente conveniente; anche perché, e non si tratta di un piccolo dettaglio, il candidato forte Calenda per vincere ad un eventuale ballottaggio con il centrodestra avrebbe bisogno anche di voti targati M5S, al momento impensabili più che improbabili.

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