Il presidente di Uneba: "I nostri ospiti non capiscono cosa sia il dpcm e io non so quale sia il punto giusto di equilibrio. Non è facile stabilirlo, ma sono perché vengano consentiti gli accessi, magari rafforzando le misure di sicurezza e di protezione: aumentare le distanze e gli schermi e consentire che gli anziani possano vedere i loro congiunti una volta alla settimana per almeno mezz'ora"
“Bisogna trovare un giusto equilibrio e un giusto compromesso, non dire ‘basta si chiude non si fanno più le visite’, misura che poi tra l’altro non trova nemmeno una ragione dal punto di vista sanitario: le visite e gli incontri si fanno con protocolli di sicurezza molto rigidi. Un’ulteriore segregazione sarebbe terrificante: una violenza inutile fatta ai danni di persone con disabilità e delle loro famiglie”. Il presidente dell’Anffas, Roberto Speziale, risponde così a chi tra gli osservatori ritiene al contrario che, benché sia poco, per proteggere le Rsa e le Residenze per disabili dal Covid non si possa fare “altro che chiudere alle visite dei parenti”.
I gestori contattati da ilfattoquotidiano.it dal canto loro fanno notare che “ad oggi i protocolli di visita dei familiari sono molto rigidi, il rischio zero non esiste per nessuno, però quello del contagio dai visitatori esterni è un rischio infinitesimale, perché le misure di sicurezza che prevedono il distanziamento, il plexiglass e il triage all’ingresso, riducono fortemente il rischio”. La scelta della chiusura resta ovviamente obbligata in caso di focolai, ricordano, sottolineando che “ci sono regioni che presumibilmente in base all’andamento epidemiologico come la Toscana, hanno deciso di bloccare le visite. Altre non si sono ancora espresse al riguardo, però anche dal punto di vista del benessere dell’ospite è giusto bloccarle nel momento in cui le strutture presentino un focolaio interno o limitrofo, in alternativa con tutte le misure stringenti del caso, è bene continuare a garantire un contatto tra ospite e familiare”.
STORIA DI UNA RIAPERTURA MISURATA E COSTOSA – Posto che le Rsa e le Rsd non hanno mai riaperto, nel senso che tranne per i casi di fine vita, nessuno a parte i lavoratori, può entrare nei reparti, le visite dei parenti nelle strutture per anziani e disabili in Italia sono riprese da fine maggio con protocolli regionali più o meno differenziati, quando gli enti non hanno invece imposto alle strutture di dotarsi loro stesse di un proprio protocollo da far validare in regione, ferme restando le linee guida dell’Istituto superiore di sanità poi emanate a giugno.
Al lato pratico, chi più chi meno, sono stati previsti accessi separati in luoghi di incontro isolati dal resto della struttura, triage con registro degli ingressi, misura della temperatura e disinfezione delle mani, distanze di un almeno due metri tra l’ospite e il visitatore, il filtro di un vetro o di un plexiglass, l’uso di dispositivi di sicurezza incluse cuffie, guanti e calzari e la sanificazione dello spazio tra una visita e l’altra. Con il divieto assoluto di introdurre alcunché o di avere alcun contatto con l’ospite. Una macchina molto laboriosa, quindi, che permette pochissimi ingressi al giorno per una durata media di una mezz’ora a visita, che è entrata a regime verso settembre e che pure per la sua rigidità non ha mancato di suscitare le proteste di alcuni parenti, come ricordano le associazioni e i gestori che hanno dovuto difendere i protocolli a spada tratta, in quanto misura di protezione indispensabile.
“PERCHE’ MIA FIGLIA NON VIENE PIU’ A TROVARMI?” – “Si è aperto in una situazione di altissima protezione, anche per dare un po’ di respiro: moltissimi anziani ospitati nelle Rsa hanno anche dei problemi di tenuta mentale, tali per cui non si può spiegare che c’è il Dpcm e il Covid – evidenzia il presidente di Uneba, Franco Massi -. E così chiedono: ‘Perché mia figlia non viene a trovarmi? Perché la sento solo al telefono? Perché non posso abbracciarla o darle un bacio?’. Succede quotidianamente”. Le direzioni sanitarie delle singole strutture di Uneba operano e decidono cosa fare nell’ambito delle disposizioni nazionali e regionali e “certo nel momento in cui i contagi aumentano, c’è il tentativo di restringere gli accessi. Non so quale sia il punto giusto di equilibrio. Non è facile stabilirlo, d’altra parte io sono perché vengano consentiti gli accessi, magari rafforzando le misure di sicurezza e di protezione: aumentare le distanze e gli schermi, ma consentire che gli anziani possano vedere i loro congiunti una volta alla settimana per almeno mezz’ora”.
CHI ENTRA E CHI ESCE – Analogamente sono ripresi i nuovi ricoveri con ospiti che, fatti i debiti distinguo tra una regione e l’altra, vengono accolti previa l’esibizione di tampone negativo nelle ultime 48 ore e vengono tenuti in una zona buffer per circa una settimana e quindi sottoposti a nuovo tampone. Stessa sorte per chi, tra gli ospiti già di casa, rientra da un ricovero ospedaliero. I gestori parlano quindi di un “filtro a maglie molto strette” per i nuovi ricoveri e di un “filtro stringente”, per le visite. Anche se è chiaro che entrambi i filtri richiedono costi molto alti in termini di dispositivi, personale e formazione, ma sono stati messi a punto per garantire sicurezza e proseguimento dell’attività che altrimenti si sarebbe fermata con altri costi di tipo economico e sociale. Tutti elementi per altro evidenziati da una lettera appello che le principali associazioni di settore dieci giorni fa hanno mandato tra gli altri a Palazzo Chigi, Camera, Senato, Conferenza delle Regioni e Anci, dicendosi sull’orlo del baratro e chiedendo aiuto anche in virtù dell’alto impatto sociale del settore. E sono ancora in attesa di riscontro.
IL NODO IRRISOLTO DEI LAVORATORI – “Rimane il percorso dei lavoratori che tutti i giorni entrano ed escono dalle strutture”, ammette poi un gestore che chiede l’anonimato sottolineando che le strutture che possono permetterselo stanno applicando a spese proprie degli screening periodici e serrati al personale, “ma al momento non c’è un test validato in italia che permetta una ripetizione quotidiana come il salivale che viene usato per esempio in Francia. Però oggi gli operatori asintomatici sono il principale fattore di rischio che tuttavia non è eliminabile. Certo, ci sono i dispositivi che in primavera non c’erano, però è questo il canale più debole“.
Ancora oggi, è la critica, delle Rsa “si parla tanto ma sono abbastanza dimenticate dalle regioni, perché gli screening che facciamo sono in capo all’ente gestore. Costi di gestione annessi e le strutture più piccole sono in difficoltà da quel punto di vista”, sottolinea un gestore. Ricordando che le strutture continuano ad avere un problema di personale correlato al fatto che “le regioni e gli enti pubblici hanno emesso bandi molto potenziati per l’assunzione di personale soprattutto infermieristico, ma le risorse umane professionali sono limitate e così lasciano scoperto il territorio, è una lotta al massacro: se si fa un bando pubblico per 3mila infermieri nella regione, quei 3mila infermieri verranno tolti da qualche altra parte…”
“NESSUNA PRECLUSIONE A CERCARE IL GIUSTO EQUILIBRIO” – “Intanto, da quando sono ripresi i contagi, qualcuno ha stretto ancora di più le maglie riducendo al massimo le visite e aumentando al massimo le precauzioni, qualcun altro, in particolare chi non aveva avuto contagi durante la cosiddetta prima ondata, ha deciso di non riaprire proprio. “Io sono un familiare, presiedo un’associazione di famiglie e per noi la qualità della vita delle persone con disabilità o non autosufficienti viene al primo posto. Tra queste c’è l’aspetto delle relazioni, del contatto con la famiglia, con gli affetti – spiega Speziale -. Nella prima fase abbiamo registrato che la questione più critica è stata la frattura dei rapporti affettivi. Parliamo di persone con gravi disabilità, con ritardo mentale, problemi di comportamento, con patologie di natura psichiatrica. Per gli anziani parliamo di Alzheimer, di Parkinson. Parliamo cioè di persone per cui anche il minimo filo affettivo-relazionale fa la differenza nel loro quotidiano. Ora dobbiamo contemperare sicuramente due necessità: la prima è tutelare la loro salute e garantire i loro operatori”.
La seconda è quella della tutela del rapporto affettivo. “Si era riusciti a trovare il giusto equilibrio, garantendo che fossero le direzioni sanitarie o i presidenti delle strutture, a trovare le giuste modalità, con tutti i requisiti di sicurezza necessari per continuare questo percorso“, aggiunge il presidente dell’Anffas. Per il quale “con l’innalzarsi dei contagi qualcuno potrebbe frettolosamente immaginare di assumere provvedimenti di questa natura che noi vorremmo scongiurare. Se il presidente della regione Toscana mi dice che bisogna porre un’attenzione particolare alle residenze per anziani assolutamente si, ci mancherebbe, l’abbiamo auspicato fin dalla prima ora. Ma oggi abbiamo delle conoscenze tali per cui non si giustificherebbe un provvedimento segregante che va a ledere quelle che sono le libertà personali, tanto che sull’argomento è già intervenuto il garante”. E ancora: “Procedere per eccesso di protezione o probabilmente per un atteggiamento molto superficiale, è facile, ma non è quella la soluzione. Andiamo a incidere sulla vita delle persone, parliamo di cose molto sensibili che vanno trattate con una cautela enorme. Parliamo piuttosto di alzare l’attenzione e di attuare dei protocolli che siano di garanzia per i residenti, gli operatori e i familiari. Non c’è nessuna preclusione a cercare il giusto equilibrio”, conclude.