di Claudia De Martino*
In questi giorni il mondo ebraico ultraortodosso è tornato ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale per l’alto numero di contagi da Covid-19 registratosi tra le sue file tanto in Israele che negli 72 avrebbe fatto resistenza al confinamento imposto dal governo per osservare le cerimonie religiose prescritte dalle festività ebraiche, lasciando scuole e sinagoghe aperte in deroga alle regole comuni, al prezzo di un altissimo numero di contagi (30% del totale su una popolazione pari al 12%).
I moderni ortodossi e ultraortodossi ebrei, spesso percepiti all’estero come un’unica indistinta categoria di religiosi praticanti, sono criticati in patria per la mancata condivisione degli oneri del servizio militare, dal quale sono esentati per motivi religiosi, ma anche per la loro scarsa partecipazione alla forza lavoro. Paradossalmente, nelle loro comunità sono principalmente le donne a lavorare, essendo dispensate dallo studio a tempo pieno della Torah che caratterizza, invece, l’obbligo principale per gli uomini.
Le donne ortodosse ed ultraortodosse, tuttavia, sono soggette ad un severo controllo sociale che condiziona tutta la loro vita: esattamente come gli uomini, nella maggioranza dei casi non ricevono un’istruzione ufficiale, non possono consultare libri o vedere film che non siano approvati, né possedere uno smartphone con il quale connettersi ad Internet per navigare sul web, neanche per cercare un lavoro. La loro vita fin da piccole si svolge all’insegna di un ideale di modestia ascetica che si traduce in un codice comportamentale e vestimentario rigoroso, nella stretta segregazione tra i due sessi tanto nella sfera domestica che in quella pubblica, nell’interiorizzazione di un senso di “inferiorità e sporcizia” da contrastare attraverso periodici bagni rituali, e nell’obbligo morale e materiale di generare quanti più figli possibile.
Non sorprende, dunque, come molte giovani donne desiderino fuggire dalle loro comunità di origine rompendo i tabù con le quali sono cresciute, anche se spesso questo desiderio di fuga comporta il rigetto da parte di tutta la famiglia e l’ostracismo della comunità intera: le chiamano le yotzot, le “fuoriuscite”, perché è come se uscissero di fatto da un mondo ermeticamente chiuso in sé stesso per varcarne un altro di cui conoscono appena i contorni, a partire dalla lingua (la maggioranza parla infatti yiddish e non ebraico).
Sarah Blau è rappresentativa di questo gruppo. Però, a differenza della media delle donne ultraortodosse che cercano di approdare ad una nuova vita senza averne i mezzi materiali, lei è riuscita a diventare una nota scrittrice in Israele, grazie alla sua prima opera pubblicata nel 2007, Il Libro della creazione (oggi tradotto in italiano da Carbonio editore), che ha illuminato la sfera privata della sua comunità di origine: una sfera intima che, proprio in virtù dell’opacità che l’ha contraddistinta finora, ha recentemente attirato l’attenzione anche di varie produzioni televisive e cinematografiche internazionali, come la celebre serie Unorthodox (2020), sponsorizzata da Netflix e tratta dall’autobiografia di un’altra “fuoriuscita” ultraortodossa statunitense (Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots di Deborah Feldman, 2012).
Il libro della Blau è però forte e intenso, perché non si limita a raccontare la storia di un’emancipazione al femminile o a ripercorrere le tappe compiute dalla protagonista nel suo passaggio da un mondo religioso fermo a costumi e tradizioni del medioevo a quello laico, proiettato nel tecnologico ventunesimo secolo e improntato all’uguaglianza tra i sessi, ma perché coglie l’elemento irrisolto di questa transizione, che per molte “fuoriuscite” non può mai compiersi definitivamente e in modo inequivocabile.
La protagonista del Libro della Creazione, così come la scrittrice Blau a cui essa rimanda autobiograficamente, si scrolla di dosso una serie di vincoli ma non vuole rompere del tutto con la tradizione, non vuole rinunciare alla spiritualità alla quale è stata educata, a quel dialogo costante con la lezione ingombrante della Bibbia, che può continuare a parlare a generazioni diverse da prospettive sempre nuove.
Da qui l’idea creativa di reinterpretare tradizioni ebraiche, come quella del Golem (una creatura antropomorfa impastata dalla terra, a cui veniva data vita attraverso la pronuncia di formule cabalistiche che potevano essere invocate a difesa delle comunità ebraiche in momenti di estrema difficoltà), in una chiave individualistica quasi dissacrante, in cui si è smarrito il senso originario del mito per reinterpretarne il ruolo in una chiave moderna, smaliziata, al servizio dei desideri e dei bisogni di oggi, rivendicando il principio che le necessità delle persone possano variare nel tempo. Per la protagonista della Blau, infatti, non sono più i pogrom l’angoscia quotidiana, quanto gli asfissianti costumi di una tradizione che la opprime in quanto donna, imponendole scelte esterne alla sua volontà, come matrimoni combinati ma anche l’obbligo assoluto di generare figli pur in assenza di un desiderio personale.
Sarah Blau compie il piccolo miracolo di ricordare ai lettori che ogni epoca si colloca su una linea di tensione tra costumi ereditati dal passato e proiezioni sul futuro a cui ancora dare forma, e che è compito di ogni generazione quello di reinterpretare le fonti della saggezza antica – fossero anche le più autorevoli e solenni contenute nella Bibbia – secondo i bisogni contemporanei degli uomini e delle donne che vi fanno riferimento, per placare le loro angosce o per trovarvi una guida rispetto agli intimi dilemmi della propria vita di oggi.
*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali