di Mattia Zàccaro Garau
Quando andavo allo stadio, andavo in curva. Il giorno del derby c’era più fermento del solito. Prima che ci fossero tutte le restrizioni per gli ultras ci si poteva accomodare con molte ore di anticipo sulle gradinate. Il che leniva l’ansia e evitava molti assembramenti fuori. Ma questa ora è un’altra storia.
Il settore si riempiva molto prima rispetto al resto dello stadio. Qualcuno srotolava lo scotch sui sedili creando uno schema in tutta la curva, dei posti venivano lasciati vuoti con dei fogli sopra, altri dirigevano i lavori: si preparava la coreografia.
Pochissimi ne conoscevano il contenuto, le scritte, il disegno. Noi altri dovevamo attendere l’ingresso delle squadre. La competizione con la curva rivale rendeva tutto più forte: era in ballo la supremazia cittadina del tifo. E su questo c’è poco da scherzare o banalizzare. Dico sul serio. Perché lo sport, il calcio specialmente, il tifo e l’altare-stadio rappresentano narrazioni profonde, ancestrali, che costituiscono l’essere umano per quello che è. Ma anche questa ora è un’altra storia.
A mezz’ora dall’inizio della partita venivano distribuiti i pezzi della coreografia. Quella volta, dove stavo io, arrivarono dei rettangoli di plastica colorata. Guardando in giro, a questo punto, si poteva intuire il senso della geometria che stavamo per andare ad esibire – e presagirne l’effetto. Ma mancava ancora da scoprire lo striscione, la scritta. L’attesa montava. Nella curva rivale, piccole formichine erano alle prese dallo stesso lavorìo.
C’era solo una regola: non tirare su niente, né bandiere né il proprio pezzo di coreografia, prima del segnale. Si fa tutti insieme. L’effetto deve essere esteticamente devastante. I giocatori, soprattutto gli avversari, devono vedere come dal nulla noi possiamo diventare tutto. Da una steppa immobile di teste – a un simbolo colorato e fremente, straordinario. Dalla potenza all’atto. Ovviamente in tutto questo c’era della retorica. Ma non è che la retorica sia un peccato. Il problema è come la si usa. Ma questa ora è un’altra storia.
Ripeto: quell’unica regola non è che fosse complicata. La coreografia si alza tutti insieme – stop. Mancava poco alla fine di questo vortice d’attesa. Ed è vero che tanto più ti avvicini al centro, al calcio d’inizio, tanto più giri nel mulinello – e più non capisci niente. Ma c’era solo da ricordare di non tirare su niente in anticipo. Sarebbe stato vanificato il lavoro di chi, sacrificandosi per tutti, aveva preparato quello spettacolo.
Vengono annunciate le squadre. Tocca alla loro: fischi. Da sotto ripetono fino allo sfinimento: non alzate la coreografia. Tocca a noi: un boato! Siamo noi!, siamo noi quei giocatori che scenderanno in campo! Giubilo! E da sotto si sgolano: nonalzatelacoreografia. Parte l’inno: ci siamo. E il gruppetto accanto a me… alza la coreografia. Loro, da soli in tutta la curva. Sgomento.
Da sotto comincia a salire un armadio a due ante. Aperte. Sbraita qualcosa verso il gruppetto accanto a me. Non capisco. Sono ipnotizzato da come quella massa riesca a risalire la corrente con tanta facilità – quasi sospinto da un ideale capace di mettere le ali. Comincio a leggere il labiale quando è a dieci metri. Poi arriva anche il suono della sua voce in mezzo a tutto il resto: “Ao!, ma capite solo le botte!? Capite solo le botte!”.
E a pensarci aveva ragione. La regola era una e semplice: non vanifichiamo tutto per la fregola di voler anticipare i tempi, di far vedere che siamo i migliori. Un po’ come col distanziamento sociale, un po’ come con la mascherina. Ma questa ora è un’altra storia. O no?
Ecco, l’impressione che si ha dai nostri comportamenti e dalle reazioni al nuovo Dpcm è che anche noi, a volte, capiamo solo le botte (metafisiche, s’intende!). La speranza è che non sia così – e che si riesca, senza botte dal governo e del virus, a impressionare a tal punto il nostro nemico da renderlo innocuo. In fondo basta solo attendere il momento giusto prima di alzare la coreografia.